Il potere dei simboli

Questo articolo è un piccolo viaggio nel pianeta dei simboli, un mondo di figure dense e accattivanti che, con la loro forza evocativa, sprigionano reticoli immaginari, talmente astratti da risultare fumosi.

Lo scopo è porre per qualche attimo lo sguardo tra i gomitoli delle nostre immagini mentali, nei volteggi istintivi che il nostro intelletto compie quando ci imbattiamo in figure simboliche. Facciamo un passo indietro e accendiamo le luci sui richiami delle parole.

I concetti, per forza di cose, sono immateriali; nella nostra mente diventano impalcature del pensiero, strade lastricate di esperienza che forniscono riscontri e consentono di trasformare l’informazione in conoscenza.

Sia che riguardino oggetti, sia che interessino, invece, procedimenti o proprietà, le idee si traducono in rappresentazioni, forme visive che danno alla riflessione una veste percettiva e offrono un’interpretazione del mondo coerente con l’elaborazione dei sensi.

La parola libro, per esempio, apre le nostre connessioni a una foresta di relazioni.

La sua immagine è immediata, ce l’abbiamo tutti chiara nella testa. Qualcuno vede un volume aperto e qualcun altro lo percepisce chiuso, ma tutti vediamo un insieme di pagine assemblate da una costola e da un titolo di copertina.

Senza che ce ne rendiamo conto, la nostra mente aggancia l’azione di leggere, lo sforzo di comprendere, l’idea della biblioteca e l’odore delle librerie sotto Natale. La memoria restituisce di colpo i dati assimilati con l’esperienza e tutte queste informazioni contribuiscono a formare il concetto di libro.

Facciamo un altro esempio e pronunciamo la parola cane. È impossibile cercare di non immaginarlo, tutti abbiamo in mente una raffigurazione condivisa: una creatura pelosa di quattro zampe che scodinzola ed è capace di abbaiare quando gli va.

Se un cane ci ha morso da bambini, probabilmente saremo attraversati da un vago senso di disagio; se abbiamo avuto un cane come amico, saremo pervasi dalla gioia e da una forte sensazione di tenerezza.

Tutte questi legami fuoriescono da una parola come profumi da un vaso di incenso, semplicemente pronunciandola.

La nostra mente è in grado di riconoscere o costruire immagini associate alle parole in modo quasi automatico, come se riconoscere e costruire fossero attività interscambiabili.

Quando guardiamo la televisione, vediamo immagini. Quando ascoltiamo la radio, invece, le costruiamo.

Attingiamo da una serie di informazioni accumulate nel tempo e creiamo una circostanza che risulti coerente con quello che sentiamo, condizionata dal nostro pregresso e arricchita dai particolari della storia.

Ciascuno costruisce visioni proprie, ma tutte verosimilmente attinenti al racconto che viene trasmesso.

Che cosa accade nella nostra mente se invece di un libro, di un cane o di un qualsiasi altro oggetto, pensiamo a un simbolo?

I legami si nebulizzano, le immagini sfumano. La nostra testa rimane invischiata in una serie di richiami che si sviluppano lontano da noi.

Entriamo nello specifico e facciamo qualche esempio cominciando da quello che abbiamo sottomano: l’idea di quantità.

È facile, in questo caso, arrivare al centro del discorso perché tutti i numeri sono rappresentati da simboli.

4, per dirne uno, è il numerale che descrive il numero quattro e racconta una proprietà comune a certi insiemi, quelli appunto che hanno quattro elementi. È un ente astratto che descrive l’effetto di un accorpamento, una caratteristica che esula dalla natura degli oggetti che computa e che di fatto non esiste da nessuna parte, se non nella nostra capacità di generalizzare.

Richiama il gesto di sollevare le dita fino all’anulare, l’azione mentale di aggiungere 1 per dare senso al verbo contare.

È singolare che per definire il 4 ci si debba staccare dalle cose che quantifica, visto che senza quelle cose non lo sappiamo percepire. Ribadiamo con fermezza che non è importante sapere se siano scarpe o sassolini perché il 4 è come una rete invisibile che ingloba e unisce un’infinità di gruppi differenti; ma senza scarpe e senza sassolini, beffardamente, l’immagine del 4 non c’è.

È uno dei poteri dei simboli, evocare cose che sembrano contraddirsi e utilizzare questo contrasto come scalino per saltare altrove.

Passiamo a un altro simbolo che ci accompagna dalla Prima Elementare: il simbolo di uguale.

È composto da due trattini orizzontali, due linee gemelle che il matematico Robert Recorde introdusse nel 1557 per evitare giri di parole, ritenendo che non ci fossero due cose più uguali tra loro di due rette parallele.

Prima di allora si indicava l’uguaglianza a parole, scrivendo che una certa somma è “eguale” a un numero o che, semplicemente, lo “fa”.

L’accezione del simbolo uguale, però, è diversa da quella del verbo fare e questo contribuisce a generare non pochi misconcetti, cioè dei concetti che vengono assimilati in modo sbagliato.

Il simbolo di uguale garantisce un bilanciamento tra due membri intercambiabili: la parte destra e sinistra dell’espressione. Nella frase “1+1 è uguale a 2” i soggetti 1+1 e 2 assumono un ruolo paritetico e, grazie all’uguaglianza, si porgono come sinonimi. Non c’è gerarchia tra le due parti, sono forme alternative che descrivono la stessa quantità.

La frase  “ 1+1 fa 2 ”, invece, è concettualmente differente. Esprime un’accezione unidirezionale, una sequenzialità che inquadra l’azione sui piani del prima e del dopo. C’è una subordinazione implicita che consente di leggere il 2 come risultato di un’operazione, qualcosa che viene restituito a seguito di un calcolo precedente.

Il simbolo di uguale ha in sé il potere illimitato del presente; il verbo fare, invece, esprime una consequenzialità tutto sommato umana, legata al tempo che avanza insieme a ogni cosa.

Questo è un altro potere dei simboli: esprimere qualcosa di eterno.

Ci avviamo verso l’ultima tappa del nostro viaggio e sbirciamo nel simbolo più suggestivo e più saccheggiato della matematica, il simbolo di infinito.

Lo troviamo su quadri e su gioielli, utilizzato come metafora dell’immensità.

La nostra mente, solo a guardarlo, abborda una quantità inverosimile di significati, una miriade di rimandi e di accezioni che tuttavia risultano insufficienti a descriverlo per intero.

Senza saperlo ripercorriamo il pensiero dei filosofi greci, che concepivano l’infinito come possibilità di aggiungere unità senza trovare un ultimo elemento, vediamo gli infiniti punti delle figure geometriche e proseguiamo, attraverso secoli di storia, fino al labirinto del calcolo infinitesimale. Lì, improvvisamente, collassa ogni visione perché la mente, abituata alla realtà dei nostri sensi, si arrampica per costruire nuove interpretazioni.

È L’immagine di qualcosa che si estende non solo all’esterno, come potremmo pensare guardando le stelle nel cielo, ma anche all’interno, in un inviluppo di cifre. È l’infinito dei numeri irrazionali che aggancia il concetto di dimensione e diventa frattale.

La nostra mente non è fatta per vedere l’infinito, lo percepiamo come un luogo senza tempo in cui le operazioni assumono un significato differente e in cui tutto diventa possibile, anche dividere per zero. È qualcosa che succede nostro malgrado e ne siamo irretiti, perché è più elevato e allo stesso tempo infinitamente più profondo di noi.

Anche questo è un potere dei simboli: scavare in profondità.

Quando pensiamo a parole, costruiamo immagini. Quando pensiamo in termini simbolici, invece, il nostro pensiero procede in modo differente. I simboli restano nebulosi e richiamano immagini vaghe, improvvise e fugaci.

Nei nostri discorsi mentali, le parole sono ordinate e richiamano un concetto alla volta; scorrono in modo lineare e il loro susseguirsi dà senso al ragionamento.

Diversamente, i simboli emanano luci multidirezionali: evocano significati distanti, informazioni apparentemente slegate che forniscono suggestioni misteriose.

Più che alle parole, i simboli somigliano ai gesti: piccoli movimenti contratti che traducono un guizzo del pensiero ed esprimono relazioni inconsapevoli.

Sono icone semplici e compatte che racchiudono significati, pacchetti dotati di intelligenza propria. Nella loro pochezza grafica sono capaci di generalizzare e di fornire modelli, di accendere lampi su concetti oscuri e poi tornare distanti, dove tutti li possiamo guardare.

Insieme alle parole costruiscono i diversi tipi di argomentazione, con le parole potenziano il pensiero.

La nostra mente è acrobatica, dotata di funzioni straordinarie.

Costruisce, dipana, danza. Acchiappa e mette insieme, poi svincola e riparte.

Fa tutto questo mentre noi, incuranti, ci occupiamo della vita quotidiana.

Per conto proprio abbraccia la realtà e di tanto in tanto sogna. Lascia aperto uno spiraglio di speranza e si aggrappa all’idea dell’amore.

Nonostante quello che vede e che sente, nonostante la devastante smania di conquista, nonostante noi.

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