Tre miliardi di gradini
L’articolo che state per leggere, ammesso che decidiate di farlo, riguarda un argomento miracoloso: il nostro più intimo funzionamento.
L’aggettivo intimo riveste, in questo caso, la totalità delle sue molteplici sfaccettature, sprigiona il significato di intrinseco e profondo e si allarga, con la confidenza di chi si sente a proprio agio, fino a diventare nascosto e familiare; varca le porte della Biologia e descrive dall’interno quello che siamo.
Il cammino in cui ci addentriamo, lo premetto, non è in discesa. Incontreremo dei nomi inusuali e dei concetti che si affacciano su altre discipline. Come in tutte le materie scientifiche, è richiesta una certa dose di pazienza e una altrettanto corposa di determinazione. Chi arriverà fino alla fine, in compenso, sarà ripagato dalla gioia pervadente della comprensione: uno stato di euforia capace di sollecitare la produzione di dopamina, di serotonina e di tutti gli altri neurotrasmettitori che generano benessere.
Da parte mia, cercherò di procedere con molta lentezza e di affrontare ogni argomento in modo semplice, rischiando qualche volta di essere banale.
Lo scopo di questa intervista è portare la scienza a chi di scienza non si occupa o se ne occupa poco, instillare la curiosità per qualcosa che succede nel nostro corpo in ogni attimo della nostra vita malgrado i ritmi a cui siamo sottoposti e gli eventi in cui siamo immersi.
Spero che arrivi a voi la stessa meraviglia che è arrivata a me quando mi sono imbattuta in certe scoperte, aiutata dalla chiarezza espositiva di Carlo Militello, biologo e autore del libro che mi ha tenuta in ostaggio un paio di mesi, per poi restituirmi cambiata.
Dunque, iniziamo. Togliamoci le scarpe e raccogliamoci in un attimo di silenzio; di fronte alle novità, la mente ama essere preparata.
Stiamo per entrare nell’ambito dell’Epigenetica, una scienza non troppo nuova che negli ultimi anni ha avuto sviluppi imprevedibili, così invadenti da modificare l’impostazione della genetica classica.
L’argomento è vastissimo e in continua evoluzione, toccheremo qui solo alcuni dei tanti aspetti lasciando gli altri a più approfondite trattazioni.
Tiro in ballo Militello, che si è prestato a questo dialogo e mi ha raggiunta per essere intervistato.
Siamo in un bar nel centro di Firenze e lui sorride guardando i miei fogli pieni di appunti.
– Ti ringrazio per aver accettato questo incontro – comincio io – il tuo libro mi è piaciuto molto.
– Grazie a te, è sempre bello parlare di quello che ci piace.
– Cominciamo dall’inizio, vuoi raccontarci che cos’è l’Epigenetica?
– È una scienza che studia il modo con cui i fattori ambientali interferiscono con il DNA, mutandone l’espressività. Grazie ai nostri comportamenti, il genoma assume funzioni diverse e queste funzioni sono in parte ereditabili: passano da una generazione all’altra.
Il mio pensiero si ferma sui termini “DNA” e “genoma”. Li sentiamo spesso e li usiamo con disinvoltura per indicare una dotazione che abbiamo fin dalla nascita, una specie di mappa che ci tratteggia per filo e per segno e dalla quale non possiamo scostarci. Abbiamo imparato che le malattie genetiche sono quelle che derivano da qualche alterazione nei geni e che il DNA, con la sua forma a fusillo, è uguale solo nei gemelli omozigoti; ma di che cosa sono fatti questi geni e dove risiedono per essere così meravigliosamente esclusivi per ciascuno di noi?
Rivolgo la domanda a Carlo, aprendo una parentesi sui presupposti per procedere.
– Come è fatto il DNA e dove risiede?
– Il DNA risiede nel nucleo di ogni nostra cellula. È una lunga macromolecola, avvolta e ripiegata. Se fosse esteso, avrebbe una lunghezza di oltre due metri; per entrare nel nucleo è soggetto a un super avvolgimento a elica; questo impacchettamento dà luogo ai cromosomi.
Mi fermo un attimo, colta da una prima ondata di meraviglia. Abbiamo in ogni cellula qualcosa che è lungo più di due metri ma siccome la cellula misura, al massimo, un decimo di millimetro, la geometria della natura ha organizzato un super avvolgimento capace di comprimere la catena delle informazioni senza sciuparle. Tutto quello che ci riguarda è lì dentro, custodito da una spirale fine e filamentosa che produce la vita.
– Dunque, i cromosomi sono DNA avvolto e compresso nel nucleo cellulare?
– Diciamo che i cromosomi sono formati da DNA, più altre proteine. Nelle cellule del nostro corpo ci sono 46 cromosomi; fanno eccezione le cellule uovo e gli spermatozoi, in cui ce ne sono 23. La parità viene ristabilita con la fecondazione. All’interno dei cromosomi si trovano i geni, che occupano delle posizioni specifiche.
– I geni, quindi, sono a loro volta pezzettini di DNA?
– Sì, sono segmenti di DNA che contengono le informazioni per produrre le proteine di cui siamo composti.
– Di cosa è fatto il DNA?
– Te lo dico subito. Sapere la sua composizione consente di capire come funziona, ma questo passaggio richiede un po’ di attenzione.
La forma del DNA ricorda quella di una scala a chiocciola. Il corrimano è composto da una lunga catena di molecole di zuccheri e fosfati che hanno funzione strutturale. I gradini, che sono tre miliardi, sono invece formati da quattro tipi di molecole chiamate BASI: ADENINA, TIMINA, CITOSINA E GUANINA, che abbreviate diventano A, T, C, G. In ciascun gradino, la base Adenina è accoppiata con la Timina, mentre la Guanina è sempre accoppiata con la Citosina.Una base, più uno zucchero e un fosfato, costituisce un NUCLEOTIDE, che è l’unità fondamentale del DNA. La sequenzialità dei nucleotidi è diversa da specie a specie e questo ci permette, sequenziando il genoma, di individuare la specie di appartenenza.Un esempio di sequenziamento può essere questo: AACCGGATTATCGC….

– Quindi un nucleotide è metà gradino, più uno zucchero e un fosfato del montante?

– Sì, l’altra metà di gradino è individuata dalla base a cui è accostata, visto che gli accoppiamenti sono obbligati. I geni, a cui accennavamo prima, sono sequenze di nucleotidi.
– Qual è la funzione dei geni?
– Una funzione importantissima: controllano la sintesi proteica.
– Sarebbe a dire?
– Sarebbe a dire che producono le proteine, che sono la parte di materiale più importante dell’organismo. Di proteine sono i muscoli, i tessuti connettivi, la pelle e anche gli enzimi, che regolano i processi chimici a cui siamo sottoposti.
Le proteine sono lunghe catene di molecole organiche dette “amminoacidi”, puoi immaginarli come tanti mattoncini posti l’uno di seguito all’altro. Ci sono 20 amminoacidi diversi che vengono impiegati in questo procedimento, in parte provengono dalla dieta e in parte sono prodotti dagli enzimi dell’organismo. Ogni catena ha una sua lunghezza e un certo tipo di amminoacidi coinvolti; i geni contengono le istruzioni per creare queste configurazioni di allineamento, mettono un mattone dietro l’altro finché la catena non è completa. Una volta formate, le catene si ripiegano su sé stesse e diventano tridimensionali, dando luogo a una nuova proteina.
– Quindi i geni indicano, passo doppo passo, quale amminoacido inserire nella catena, è così?
– Esattamente.
– Come fanno?
– Il procedimento è abbastanza complesso, ma per renderlo più comprensibile si può schematizzare in due passaggi essenziali: la trascrizione e la traduzione.
Cominciamo dalla trascrizione.
Parte della doppia elica del DNA si apre, svolgendosi. Immagina che la scala si divida verticalmente in due parti: metà gradini rimangono attaccati a un montante, e la seconda metà si stacca con l’altro. Di questi due filamenti, uno funge da modello, come uno stampo che consente di formare un nuovo filo, con la logica degli accoppiamenti delle basi. La nuova componente è complementare allo stampo ed è chiamato RNA messaggero, mRNA, perché porta le informazioni per la replicazione. L’mRNA è una catena di basi identica al filamento di DNA che non viene utilizzato, con la differenza che al posto della Timina presenta l’Uracile. Così come nel DNA di provenienza, la guanina è affiancata dalla citosina; mentre l’Adenina è adesso legata all’Uracile. Ci sei fino a qui?
– Sì.
Faccio dentro di me il punto della situazione. Mi immagino la doppia elica aprirsi come un fiore e separarsi al centro. Una delle due parti è usata come calco per formare qualcosa che riproduca la parte mancante, con la variante di un’informazione. Mi soffermo sull’immagine di questo spiegamento miracoloso. Non posso fare a meno di notare che la vita inizia sempre con qualcosa che si apre; l’accoglienza è un presupposto fecondo per i processi del corpo come per le idee; l’evoluzione, contro ogni istinto di resistenza, procede evidentemente a braccia aperte.
– Che cosa succede dopo? – riprendo il discorso.
Carlo attende che il mio sguardo sia pronto e prosegue nella sua spiegazione.
– Una volta costruito il modello, l’mRNA abbandona il nucleo e giunge nella parte più esterna della cellula, il citoplasma.Qui il codice mRNA raggiunge il ribosoma, corpuscolo citoplasmatico essenziale per l’assemblaggio delle proteine e inizia a comunicare l’ordine sequenziale e il tipo di amminoacido da legare.
– Come fa a comunicarlo?
– La cellula attiva il meccanismo di assemblaggio servendosi degli RNA Transfer (RNA di trasporto- tRNA) che contengono ognuno una tripletta di basi (un codone) a una estremità, mentre nell’altra estremità è legato un amminoacido. Quindi, come dei robottini, gli tRNA trasportano il loro amminoacido lungo lo stampo e lo inseriscono esattamente sulla tripletta complementare dello stampo rendendo improbabile qualsiasi errore. Per essere più chiari, se in un punto dello stampo (mRNA) c’è una tripletta CGU (citosina, guanina, uracile) che richiama l’amminoacido valina, il robottino tRNA che ha il suo carico di valina, avrà all’altra sua estremità la tripletta complementare G,C,T (guanina, citosina, timina) che andrà a incastrarsi sul suo complementare sullo stampo mRNA assicurando la sequenzialità degli amminoacidi della proteina richiesta. E, incastro dopo incastro, tutti i mattoncini (gli amminoacidi) della proteina avranno la sequenza richiesta che ne definisce la struttura, anche spaziale, e la funzione. Se cambia la posizione di un mattoncino, pur mantenendo la stessa composizione amminoacidica, avremo un’altra proteina con proprietà magari diametralmente opposte.
Mi fermo ancora a riflettere. Le basi di RNA sono quattro e, attingendo da queste, si formano i codoni. Sono gruppi di tre elementi scelti su quattro, anche ripetuti. Si possono ottenere 43 possibili codoni, 64 in tutto. Evidentemente la natura conosce il calcolo combinatorio e la nostra mente si perde per inseguirla, cercando un ordine che da qualche parte è scritto a lettere chiare mentre noi siamo al buio. La complessità del nostro più intimo funzionamento si fonda su sequenze di tre molecole ordinate con cura: un meccanismo così semplice da risultare imbarazzante.
– Come si fa a capire qual è l’inizio e la fine della catena?
– Ci sono dei segnali di inizio e di fine. La tripletta AUG indica l’inizio, mentre le triplette UAA, AGA, UAG danno il segnale di stop.
– È prodigioso, sembra un alfabeto muto!
– Già – ride Carlo – si ravvisa una certa forma di furbizia.
– I codoni sono 64, gli amminoacidi invece solo 20. Significa che più codoni danno luogo allo stesso amminoacido?
– Sì, nel codice genetico c’è ridondanza. Questo consente di assorbire eventuali errori nella replicazione. Ma non c’è ambiguità: ogni codone dà luogo ad un amminoacido preciso.
– I nostri organi, però, sono fatti di proteine differenti. Come fanno i geni a gestire la produzione di proteine per un organo specifico?
– Succede questo: le cellule di quell’organo hanno gli stessi geni delle altre cellule, ma alcuni di questi vengono silenziati. Esistono ben 174 biomolecole capaci di “accendere” o “spegnere” i geni. Dopo il processo di differenziazione di un tessuto durante lo sviluppo embrionale, rimangono accesi solo quelli che servono alla funzione della cellula di appartenenza. Facciamo un esempio: le cellule del pancreas hanno gli stessi geni dei neuroni del cervello, ma nei primi sono attivi solo quelli che servono a produrre gli enzimi pancreatici per la digestione mentre gli altri sono silenti. Allo stesso modo, nei neuroni sono attivi i geni che producono i mediatori chimici per il trasferimento degli impulsi nervosi, mentre gli altri sono inibiti.
– È tutta una questione di acceso-spento, quindi?
– Esatto. Il DNA porta con sé una forma di “marcatura chimica” diversa per ogni tipo di cellula, puoi immaginarle proprio come targhette chimiche che accendono e spengono alcuni geni. Questo assicura che lo schema di espressione genica si trasmetta alle cellule figlie.
– Arriviamo all’epigenetica. Mi sembra di aver capito che queste targhette, che condizionano l’espressività dei geni, derivano in parte dai nostri comportamenti. È così?
– L’insieme di tutte le molecole che, come targhette chimiche, si attaccano in determinati punti del DNA e rendono possibili i cambiamenti espressivi dei geni costituiscono l’EPIGENOMA. Grazie a questi cambiamenti, per esempio, alcuni geni che predispongono al diabete possono dare origine alla malattia oppure no. In altre parole, se una targhetta (per esempio un metile) si attacca su quel gene, ha l’effetto di silenziare lo stesso, inibendone l’espressività. Certo, l’individuo porterà sempre con sé la sua genetica predisponente, trasferendola alla discendenza.
– Come fa una targhetta chimica a silenziare o ad amplificare un gene?
– A seconda che alcune molecole si attacchino o si stacchino da specifiche posizioni di DNA, il gene viene o meno trascritto in mRNA, e dunque tradotto in proteina. E se la proteina non viene prodotta, non può esercitare la propria funzione. I geni non determinano inesorabilmente i tratti di un individuo, ma costituiscono delle potenzialità che diventano reali sotto l’influenza di stimoli interni ed esterni.
– Di che natura sono questi stimoli?
– In parte provengono dall’ambiente in cui viviamo: lo stile di vita, l’alimentazione, l’uso di farmaci, le sostanze con cui entriamo in contatto; altri sono indotti dal nostro modo di approcciarci alla vita: i pensieri, la fede, i desideri, la speranza. L’Epigenetica studia proprio il rapporto tra il nostro DNA e l’ambiente che lo gestisce. Del resto, che l’ambiente condiziona il nostro rendimento biologico è abbastanza evidente; in pochi decenni abbiamo cambiato la durata media della vita, quella del menarca e della menopausa, l’altezza della popolazione ecc… Il genoma evidentemente è rimasto identico, mentre sono cambiati i fattori epigenetici.
– Hai detto che alcuni fattori epigenetici passano da una generazione all’altra, come è possibile?
Succede questo: subito dopo la fecondazione, entra in gioco un processo di cancellazione delle note epigenetiche che hanno accompagnato lo sviluppo delle cellule germinali aploidi, cioè lo sperma e l’oocita. Man mano che lo sviluppo va avanti, la cancellazione viene sostituita da un processo di nuove iscrizioni e note che sono determinate, questa volta, dall’ambiente del nuovo essere. Apro una piccola parentesi sull’importanza di questa rimozione. Nel 1996, per clonare la pecora Dolly, fu fatto il trapianto nucleare di una cellula somatica nell’ovocita privato del suo nucleo, senza la dovuta cancellazione del vissuto dell’adulto. Questo ha fatto sì che la pecora abbia sofferto di vari disturbi di invecchiamento precoce, nonostante la sequenza del suo DNA fosse identica a quella della madre. Ora, la cancellazione non è totale, circa il 5% delle vecchie note passa alla generazione successiva. . Di fatto, sopravvivono alla ripulitura delle cellule germinali alcune segnature epigenetiche.
– Viene ereditata parte della segnatura chimica di acceso-spento?
– Esatto, proprio quella. Da una parte è un bene: in questo modo una madre prepara il figlio a reagire all’ambiente in cui sta vivendo, creando un’eredità epigenetica capace di fargli affrontare e sopportare i disagi e le privazioni che lei ha subito. Ti faccio un esempio pratico: nei figli di persone sopravvissute all’olocausto era inattivo il gene che influenza la risposta dell’organismo agli ormoni dello stress. Lo stesso gene era già inattivo nei loro genitori per via di quello che hanno vissuto. Sembra che la natura faccia tesoro dell’esperienza e fornisca degli strumenti di adattamento. Diventa un male, però, se lo stile vita è scelto in modo non appropriato. Se una madre fuma, beve o si droga, parte del suo comportamento viene trasferito al piccolo che si sta sviluppando nel suo utero, creandogli un “marchio di fabbrica” non certo positivo e destinandolo a ripetere certi comportamenti, a prescindere dai geni ereditati. Per questi motivi l’epigenetica, a differenza della genetica fatalistica, promuove un messaggio RESPONSABILIZZANTE: la tua salute, la tua malattia e la tua longevità sono in gran parte frutto del tuo stile di vita e di ciò che pensi. A seconda di come scegli di vivere, tutto può essere diverso.
– Quindi, le esperienze sono fondamentali per utilizzare al meglio il nostro DNA: non solo quello che mangiamo e l’aria che respiriamo, ma anche la socialità, l’affetto, la solidarietà…
– Sono importantissime. Le esperienze rendono il nostro DNA dinamico e flessibile, capace di esprimersi in modi diversi. I geni non determinano inesorabilmente i tratti di un individuo, ma costituiscono delle potenzialità che diventano reali sotto l’effetto degli stimoli esterni. Sono come gli strumenti di un’orchestra, che possono essere suonati oppure lasciati in silenzio dal direttore, che è il nostro sistema complessivo. Noi, con le nostre scelte e i nostri comportamenti, possiamo interagire col direttore affinché il suono risulti armonioso.
– Sorprende che tutto questo avvenga mediante un comando chimico di acceso – spento.
Carlo sorride.
– È vero, sorprende.
Il sì e il no, comandi netti di un sistema binario, sembrano caratterizzare la nostra vita nel profondo, costringendo il sistema a delle alternative senza mediazioni. Succede la stessa cosa per tutte le nostre decisioni: si può riflettere quanto ci pare, analizzare ogni comportamento e ascoltare le voci di tutti i motivi che ci vengono in mente; alla fine la scelta sarà in una direzione precisa mentre l’altra sarà preclusa.
Guardo l’orologio. Il pomeriggio è arrivato alla fine, sul tavolo davanti a noi ci sono le tazze, i piattini e una marea di fogli su cui io ho scarabocchiato mentre Carlo parlava.
– Credo che sia l’ora di andare – gli dico liberandolo – non voglio rubarti altro tempo. Sei stato gentilissimo, oltre che illuminante.
– Sono contento di essere stato utile.
Ci alziamo e usciamo dal bar, lui si dirige alla sua moto e io vado verso la mia bici, allucchettata davanti all’Accademia. Lo abbraccio con la gratitudine di chi ha visto qualcosa di magico e deve ancora riprendersi dall’emozione, poi mi avvio verso casa. Attraverso piazza Duomo e giro in direzione dei Lungarni. Mentre pedalo, col freddo dell’inverno sulle guance, mi tornano in mente le immagini di una scena tutta interiore, teatro del nostro intimo funzionamento. Rivedo il fiore che si apre, la scala che si srotola, i geni che si accendono con la speranza e la tripletta UAG che dichiara la fine dei messaggi. Penso a come tutto questo succeda in ogni istante dentro di noi e mi dico che dovremmo esserne felici, trovare il modo di celebrare il miracolo di un meccanismo tanto silenzioso. Basterebbe anche così, semplicemente, in un momento qualsiasi della nostra giornata: lasciare per qualche attimo il pensiero delle cose da fare e concentrarsi su quello che siamo: grati, stupiti e meravigliosamente vivi.
UAG