Una sera, due parole e quattro sconosciuti
L’idea di un incontro virtuale con artisti che non conoscevo è arrivata per caso, indotta dal profondo senso di isolamento che ci accompagna da un anno a questa parte e che è diventato, nostro malgrado, una nuova condizione di normalità.
Stavo cucinando la cena senza troppo entusiasmo, quando ho gettato l’occhio sulle notifiche del cellulare scorgendo, tra i messaggi, il nome di Tobia Ravà.
Ora, dovete capire, tra l’approntamento di una cena svogliata e il nome di Ravà sul cellulare, io non ho avuto facoltà di decisione: ho lanciato il mestolo e mi sono buttata sullo strumento tecnologico sfoderando la foga di un naufrago mentre agguanta la ciambella di salvataggio.
A mia discolpa, per tutti quelli che aspettavano di mangiare e che cominciavano a sentire odore di bruciato, c’era il baluardo della mia predilezione per questo artista illuminato. Quello che era successo poteva essere letto come un fenomeno sovrannaturale: una dimensione divina si era intromessa nelle mie faccende terrene e io non avevo potuto oppormi. A loro, comprensibilmente affamati di cibo, rimaneva la scelta se preparare da soli o semplicemente aspettare.
Il messaggio di Tobia conteneva saluti e un link a una canzone di un autore a me sconosciuto: Diplomatico e il collettivo Ninco Nanco. Mi è sembrato, in quel momento di tardissimo pomeriggio poco propenso a diventare sera, che ascoltare qualcosa di nuovo potesse rappresentare per la mia mente uggiosa una forma di apertura, la risposta a un desiderio d’aria fresca che forse stava per essere esaudito, seppur tra mille limitazioni.
Ho liberato il brano tra le pareti della cucina, nell’intento di ascoltarlo mentre riprendevo a preparare.
La canzone, leggera quanto basta per non essere pesante, mi è parsa tutt’altro che banale.
Una voce sicura e graffiante ha riempito tutto lo spazio senza chiedere alcun permesso, portando con sé il dono di un inaspettato carico di energia. È sempre bello incontrare il talento, soprattutto se arriva inaspettato. Ci si accorge improvvisamente che le persone si esprimono, lontano dai nostri occhi, con vibrazioni del tutto personali e che proprio quelle vibrazioni hanno il potere di diventare nostre; in un lampo ci accartocciano la pelle per poi renderla miracolosamente recettiva.
– Mi piace! Lo conosci? – Ho scritto a Tobia.
– No. Ma conosco Davide Antonio Pio, un amico comune.
– Già che ci sono ascolto anche lui – ho pensato tra me, assecondando l’idea che la musica avrebbe reso il mio umore più presentabile.
Così ho digitato il nome di Davide, finché è comparso il primo brano.
Del tutto diverso dal precedente, anche questo secondo artista mi è sembrato assolutamente talentuoso. Molto filosofico, raffinato, decisamente originale.
Sarà stata l’inquietudine di quella sera storta o forse la stanchezza per una situazione generale logorante, sta di fatto che il quel preciso momento mi è balenata in testa l’idea di conversare con i due cantanti, accompagnata dalla luce-guida di Tobia.
– Che dici, ci facciamo una chiacchierata? – gli ho scritto – Un discorso sull’arte che è stata soffocata dalla pandemia, un confronto serale a più voci su come ci si sente a forza di sentirsi soli.
– Ci sto – ha risposto lui con la sua calma rasserenante – verrà fuori una bella conversazione.
Così ho contattato i due artisti e abbiamo fissato un incontro virtuale per una sera della settimana successiva; il dopo cena di un venerdì in cui nessuno sarebbe comunque potuto uscire.
Quando ho acceso il pc, il giorno in questione, mi sono trovata davanti due facce sorridenti che facevano da contorno alla mia e a quella di Tobia. Quattro volti curiosi, otto occhi sgranati, molteplici libri di sfondo e un unico dipinto, pieno zeppo di numeri.

Dopo le presentazioni, ho illustrato ai miei ospiti virtuali il piano per la serata.
Tutto sarebbe ruotato intorno a due parole, che avrei svelato durante l’incontro.
Per ogni termine, ciascuno di loro avrebbe segnato su un foglio frasi, associazioni di idee o immagini mentali evocate dalla parola in questione, facendo eventualmente rifermento alla situazione del momento. Successivamente le avrebbero lette a voce alta per confrontarle insieme.
– Siete pronti?
– Pronti!
– Allora iniziamo. La prima parola su cui dovete porre la vostra attenzione è VUOTO.
Di là dallo schermo, i miei tre interlocutori hanno chinato la testa e hanno cominciato a scrivere.
Mentre li guardavo, concentrati nelle loro riflessioni e intenti a catturare le immagini volanti che fluttuavano davanti ai loro occhi, ho pensato che avere uno spirito giocoso è un dono della provvidenza e che la fantasia ha il potere di trasformare il grigio più impenetrabile in una sfumatura rosata.
Li ho osservati mentre giocavano seriamente, poi ho ripreso la parola e con la stessa loro responsabile leggerezza, ho chiesto di raccontare quanto avevano immaginato.
Il primo a parlare è stato Francesco, il Diplomatico dei Ninco Nanco:
–Io ho pensato tre parole: sogno, realtà, sguardi. Sono tre termini legati in qualche modo alla memoria e alla possibilità di recuperarla. Mi capita, in questo periodo, di sognare cose che non ricordo; mi sveglio con la sensazione di aver perso la consapevolezza di quello che stavo vivendo e mi rammarico nel tentativo di recuperarla. È abbastanza singolare, ma d’istinto cerco una traccia negli occhi degli altri, come se in fondo al loro guardo, nascosta da qualche parte, ci fosse la mia verità.
Questa riflessione mi ha fatto venire in mente il viso dei vecchi, quando la memoria si annebbia e perdono ogni riferimento col presente. Nel vuoto totale, l’espressione di chi hanno davanti fornisce loro una guida, come se la sfera emotiva dello sguardo sopperisse a un ragionamento razionale. Il nostro corpo dispone di porte diverse per accedere alla realtà; le carezze arrivano dalla pelle e deviano dal processo cognitivo per giungere velocemente a calmare.
Si chiamano carezze perché ci sono care, dimostrazioni di una benevolenza affettiva che non ha bisogno di essere spiegata.
Dunque il vuoto, per Francesco, aveva bisogno di sguardi. Io lo capivo bene, gli sguardi sono la cosa che più mi è mancata nella didattica a distanza; senza quel filo ogni comunicazione è interrotta, troncata, distante: procede in una direzione unica e si perde nel divario del distacco.
-Tobia, te cosa hai pensato? – Ho proseguito poi.
– La prima cosa che mi è venuta in mente è stata l’espressione vuoto a rendere. In realtà, a parte il gioco di parole, quella che rendiamo è l’idea del vuoto perché il vuoto vero non esiste. C’è un vuoto materiale, quello che associamo all’assenza di qualcosa di tangibile. Ma in termini più alti e assai più sottili, c’è sempre una presenza divina, un comun denominatore che ci accompagna e riempie ogni interstizio. È L’Alef infinito, la voce del respiro prima di ogni parola. Prendi ‘Dam’, che significa ‘sangue’. Con la A- Alef davanti diventa ‘Adam’, cioè ‘uomo’. Oppure ‘Met’, morte; con la A (che si può leggere ‘e’ a seconda dei casi), diventa ‘Emet’, verità. È un po’ il contrario dell’alfa privativa greca: posta all’inizio riqualifica, produce nuove accezioni, dona la vita.
Allo stesso modo, la presenza della lettera h-hei alza il livello spirituale. Sara diventa Sarah e da novantenne riesce a partorire; Abram diventa Avraham ed è capace di concepire pur essendo centenario.
Quando Tobia dice cose come queste, che mescolano antiche culture con forme eterne di verità, si ha la sensazione di scoprire una parte sommersa della realtà. Un mondo subacqueo si apre davanti ai nostri occhi e ci lascia ammutoliti: fermi, immobili e sbigottiti a chiederci se è possibile che prima non ci fosse o seppure eravamo noi che, semplicemente, non lo vedevamo.

Pensavo a tutte questo quando lui ha ripreso a parlare.
-La seconda cosa a cui ho pensato è un imbuto, inteso proprio come strumento che consente di riempire un recipiente vuoto. L’imbuto raccoglie una gran quantità di materia e la convoglia in uno spazio stretto, costringendola a passare dove non sarebbe arrivata. È un po’ come la coscienza, recupera tutte le nostre scelte e le costringe ad attraversare un unico filtro, il nostro intimo giudizio.
L’immagine dell’imbuto come filtro della coscienza ci ha fatto sorridere, forse il nostro modo di parametrare il bene e il male dipende dalle dimensioni della cannula di passaggio, da quante azioni riescono ad attraversare la strettoia nel momento preciso delle nostre scelte.
-Davide, sta a te – ho ripreso.
– Dunque – ha cominciato lui – io sono partito dalla differenza tra forma e contenuto. Nell’arte, ledue cose tendono a sovrapporsi: il mezzo con cui ci esprimiamo si fonde col messaggio che vogliamo esprimere. Il vuoto riveste un ruolo decisivo, perché definisce la forma e tira fuori il contenuto. Un po’ come il negativo delle vecchie pellicole fotografiche: ciò che non viene impresso rimane chiaro e fa da contorno alla parte raggiunta dalla luce.
Quello che non siamo ci scolpisce, toglie caratteristiche al nostro modo di essere fino a farci diventare ciò che siamo. In questo senso il vuoto non fa paura, stabilisce i confini della nostra essenza.
Ma c’è un altro modo di inquadrarlo ed è legato alla capacità di accogliere. Mi sono accorto, in questo periodo di difficoltà collettiva, che avevo bisogno di qualcosa di femminile. Cercavo la mia consolazione in pensieri di ospitalità e di inclusione. Credo che questa immagine mi rimandasse al grembo delle donne in cui si forma la vita. Una forma di creazione salvifica che ha spostato il mio pensiero sulla rinascita e sull’attesa necessaria per ogni fioritura.

La gravidanza in qualche modo è l’emblema dell’attesa costruttiva, richiede calma e nutrimento; la natura compie il suo miracolo e usa tempi che in alcun modo possono essere forzati; forse noi dobbiamo imparare a fare altrettanto.
Davide parlava e noi ascoltavamo in silenzio, irretiti dalle scintille di rimandi che una stessa parola aveva innescato nelle loro menti differenti. Avevamo l’impressione, tacitamente condivisa, che il significato oggettivo di ogni termine scivolasse nei connotati individuali e in qualche modo perdesse concretezza, fino a diventare un groviglio di sfaccettature sfumate e personali.
Intanto il tempo passava.
– Siete stanchi? Volete andare a dormire o procedo col secondo termine? – Ho chiesto. Si concludeva per tutti una settimana di lavoro e non volevo approfittare della loro disponibilità.
– Procedi!
– Bene. Il secondo e ultimo termine che vi propongo prende spunto da un’opera di Tobia, che rappresenta un orecchio. La parola è ASCOLTO.

Hanno chinato la testa sul foglio e hanno ripreso a pensare.
Il primo a parlare, questa volta, è stato proprio Tobia.
– Io mi sono allacciato all’idea del recipiente vuoto. Ho spezzato la parola ascolto in A- colto, con l’alfa privativa. Mentre ascoltiamo, in qualche modo ci dobbiamo svuotare: liberare dei preconcetti, delle convinzioni pregresse, del giudizio. Solo così possiamo recepire dall’altro, accogliere quanto ci sta dicendo; A-cogliere, appunto.
Nel quadro che hai citato, tutti i numeri che compaiono rimandano a parole che hanno a che fare col suono e con la voce. Inoltre sono numeri che fanno parte della sequenza di Fibonacci, considerati come somma di termini significativi: il 13 unisce le parole AMORE e REGALO; il 21 si ottiene da EMERGERE e da ESPLODERE, il 34 da POVERO e da GOCCIA DI RUGIADA, il 55 da CAMMINARE, FONDAMENTO E MATRIMONIO.
– È bellissimo! – abbiamo esordito noi all’unisono. I quadri di Tobia sono libri da sfogliare, parole da ascoltare, mondi da visitare. Non sappiamo descrivere con precisione quello che succede, ma quando si è finito il viaggio tra i suoi numeri siamo indubbiamente diversi.
Ho ripreso in mano il filo del discorso e ho chiesto a Davide di raccontarci i suoi pensieri.
– Con la parola “ascolto” mi è venuto in mente il mito greco di Cadmo e Armonia. Cadmo, mediante il suono del suo zufolo, riuscì a incantare il mostro che teneva prigioniero Zeus e il dio, in cambio, gli promise una moglie bellissima, Armonia, figlia di Ares e Afrodite. Cadmo è considerato il primo eroe della mitologia greca: non possedeva armi ma era dotato di una grande arguzia, grazie alla quale fronteggiava le avversità. Io mi occupo di musica, quindi sono molto sensibile all’armonia e a come si sposano i suoni. Per me l’orecchio è un canale di connessione privilegiato, mi permette di sintonizzarmi col mondo e con la natura in generale.
Ma il dipinto di Tobia mi ha fatto venire in mente anche un’altra opera: l’Amleto di Shakespeare.
Il padre di Amleto appare al figlio dopo la sua morte per rivelargli che lo zio Claudio lo ha avvelenato mediante l’istillazione di un veleno nell’orecchio. Mi è sempre parsa singolare la scelta di questo organo per produrre un avvelenamento, mi piace legarla al fatto che con le parole si può ferire, anche molto gravemente, e che è sempre bene prestare molta attenzione a quello che si dice.
– Sono perfettamente d’accordo – ha commentato Francesco – a volte si ferisce senza prestarci attenzione. Non si può essere indifferenti, non si deve essere indifferenti.
– L’indifferenza è il titolo della tua ultima canzone, giusto Francesco? Quella che ha nel testo i quadri di Ravà .
– Giusto! Ho visto le opere di Tobia in una mostra e sono rimasto folgorato. Per qualche giorno mi sono rimbalzate nella testa e non ho potuto fare a meno di inserirle nel mio brano. Mi è parso che tutti quei numeri formassero un abbraccio in cui ero piacevolmente caduto.
– Che cos’è per voi l’indifferenza?
– Un ponte senza sponda – ha detto Davide.
– Un viaggio incompiuto – ha aggiunto Tobia – l’occasione persa di andare in direzione degli altri.
– La mancanza di ascolto – ha concluso Francesco.
– A proposito di ascolto, Francesco, mancano le tue riflessioni.
– Io ho collegato alla parola ‘ascolto’ due immagini. La prima è più astratta ed è quella di una scoperta: qualcosa di nuovo con cui veniamo in contatto per il solo fatto di essersi fermati ad ascoltare. Prendiamo questa sera, per esempio. Ci siamo conosciuti prestando attenzione ciascuno ai pensieri degli altri; non è una bellissima scoperta? La seconda immagine invece è un mazzo di chiavi. A volte mi capita di tornare a casa stanco; magari tardi, di sera, dopo una giornata faticosa. Durante il percorso agito le tasche e sento il rumore delle chiavi, il solo suono mi culla nell’idea che di lì a poco sarò entrato e potrò cedere al riposo. Le chiavi sono quindi un simbolo di protezione domestica; il loro tintinnio è un richiamo al nido.
C’è stato qualche attimo di silenzio, in cui ciascuno gestiva dentro di sé l’eco delle parole degli altri.
Sullo schermo, le nostre facce avevano la medesima espressione un po’ assorta e un po’ incantata.
Ho lasciato passare qualche secondo e ho ripreso la parola per concludere.
– Vi ho ascoltato parlare con grande attenzione, curiosa di sapere che cosa avreste tirato fuori. Da due vocaboli è uscita una rete di collegamenti talmente fitta da formare una coperta, una tela di fili del mare. Stanotte voglio coprirmi con quella, tra le maglie dei vostri pensieri.
E chissà che non trovi, domani, tra le mie idee qualche segnale delle vostre. Le porterò con me, per ricordarmi di questa serata improvvisata, insieme alla voglia di giocare ancora, come antidoto contro ogni forma di irriconoscenza per la vita.
Loro hanno sorriso e hanno alzato la mano in segno di saluto.
Vi abbraccio, amici di una sera, forse prima o poi ci incontreremo ancora. Non sarà poi così difficile riconoscersi: avremo gli occhi pieni di strade e le orecchie stipate di suoni differenti. Ma appesi tra i vestiti e le valigie, da qualche parte, ravviseremo dei particolari inconfondibili. Ci strusceremo gli occhi con le mani e scorgeremo, tra i mille oggetti della nostra vita, un imbuto, uno zufolo e un mazzo di chiavi arrugginito.