11. Il tradimento di Alvise
Curvo sul banco da lavoro, Alvise pianse disperatamente.
Fu un pianto inconsolato, privo anche della rassegnazione. Sprofondò in una melma senza ossigeno, lontano dalla quiete, e sentì il peso di non aver nulla da sorreggere, incapace di cercare la luce.
Guardava la lista di nomi incisi sulla pergamena e aveva la sensazione che tutto fosse profondamente insensato, contrario alla logica stessa della vita.
La sua storia personale era stata un susseguirsi di silenzi e ora pagava il conto di un dolore assordante. Vacillava per la fermezza di una vita spesa ad osservare, cedeva adesso per non aver ceduto in precedenza, rimanendo sempre a un passo dall’amore.
I suoi pensieri tornarono a quel giorno di un anno e mezzo prima, quando Franz era entrato per la prima volta nel laboratorio con il quadro.
Rivide la scena e fu pervaso da un’inaspettata tenerezza. Non poteva sapere, allora, che di lì a poco tutto sarebbe cambiato.
Ricordava esattamente le sensazioni che aveva provato, il sentore della minaccia incombente, il presentimento di qualcosa che stava sfuggendo alla rete di controllo.
Quando lo vide entrare lo riconobbe e andò in fondo alla stanza, rimanendo in disparte a osservare.
Bianca lo ricevette, prese il quadro e lo guardò con ammirazione. Fu proprio in quel momento che l’uomo si sentì vacillare. La sua voce era diversa, il suo tono era ammaliato. Alvise riconobbe in quei modi la forza e la delicatezza di un sentimento nascente, puro come il primo suono, sfrontato come l’amore che doveva scoppiare. Le domande di Bianca arrivarono come il presagio di un disordine che avrebbe avviluppato tutto, stringendo ogni certezza nella morsa di quello che non sarebbe dovuto succedere e che invece stava nascendo proprio allora.
Franz lasciò il dipinto perché venisse incorniciato, Bianca lo appoggiò sullo scaffale dei lavori da fare. Tutte le volte che ci passava davanti si fermava a guardarlo, rapita dai simboli che vi erano raffigurati.
A fine giornata, ormai solo, Alvise si avvicinò alla tela.
Quella rappresentazione, che per Bianca era ricca di mistero, ebbe per lui un riferimento chiarissimo. Era il rimando a qualcosa che comprendeva solo in parte, a cui aveva dedicato la premura di una vita intera.
Il pesce, i numeri, i due cerchi che si incontravano…. tutto faceva pensare a un collegamento con il segreto di cui Franz era depositario, sostenuto da altri che il ragazzo conosceva indirettamente o che aveva visto in occasioni rare.
Da molti anni Alvise apparteneva alla Cerchia dei Custodi. Era divenuto Guardiano della Verità con una carica trasmessa dal nonno, scelto tra fratelli e cugini per via della sua propensione alla fedeltà e del suo carattere taciturno.
Gli altri, in famiglia, non sapevano nulla né sospettavano che ci fosse qualcosa da sapere. Il nonno gli propose il proprio posto quando sentì di non avere più le forze necessarie a esercitare il ruolo, secondo il protocollo di una tradizione secolare. Un giorno di maggio lo avvicinò e cominciò a parlare. Lui, che ormai aveva superato la ventina, inizialmente non si scompose. Quell’uomo riservato, che l’aveva accompagnato nella crescita, gli aveva trasmesso l’amore per la lettura e il gusto per la simbologia, Alvise pensò inizialmente che volesse discorrere come facevano da sempre nei pomeriggi passati insieme. Invece il nonno, senza tanti giri di parole, gli disse che era arrivato il momento di affrontare una questione seria e delicata, di cui non avrebbe dovuto parlare con nessuno. Gli rivelò che c’era un segreto da conservare e che lui, insieme ad altre persone, da molti anni era Guardiano della Verità.
Gli riferì che i custodi in tutto erano sei, ma tre di loro agivano nell’ombra e non potevano in alcun modo palesarsi con l’erede. Alvise sarebbe stato uno di questi e, accettando, avrebbe assecondato il divieto di intrattenere relazioni con lui.
Avrebbe incontrato gli altri sorveglianti solo in casi eccezionali, qualora il loro intervento si fosse dimostrato necessario. In condizioni normali, la sua vita sarebbe stata pressoché regolare e non avrebbe avuto restrizioni particolari, se non l’obbligo di una vigilanza discreta e la disponibilità a entrare velocemente in azione in caso di necessità oltre che, ovviamente, il silenzio assoluto. Solo l’erede conosceva il segreto per intero, ciascuno dei guardiani deteneva invece qualche dettaglio e garantiva, insieme agli altri, la continuità della trasmissione.
Di generazione in generazione, l’informazione era passata nel corso dei secoli seguendo le medesime regole: tre custodi noti all’erede e tre nascosti, funzioni diverse di un’unica missione. Accettando l’incarico, il ragazzo avrebbe preso il posto del nonno e, un giorno, avrebbe dovuto trovare il proprio successore in modo da lasciare invariati il numero e il ruolo dei guardiani all’interno della Cerchia.
Ripensandoci, tanto tempo dopo, Alvise ricordò la sorpresa della rivelazione e il senso di mistero che avvolgeva ogni parola.
– C’entra qualcosa la magia nera? – volle sapere.
– Sappiamo per certo di no.
– Potrebbe far male a qualcuno?
– Nemmeno. È qualcosa che riguarda il sapere.
– Come mai tanta importanza per un segreto che non ha potere?
Il vecchio fece una lunga pausa prima di rispondere. Alvise comprese da quel silenzio che aveva toccato un tasto delicato, l’idea stessa del riserbo e della sapienza esoterica, forse proprio il motivo per cui suo nonno aveva accettato il compito.
Era la forza di un mistero passato di bocca in bocca, sussurrato da laconiche voci e ancora vivo nonostante il tempo; un rito clandestino che aveva dimostrato, con la sua fievole presenza, che il fruscio del vento qualche volta arriva più in là dell’uragano.
– Vedi – cominciò – l’antico sapere non è alla portata di tutti. Scorre sotto la superficie, ignorato da chi non lo può capire. È un fiume che si snoda in rigagnoli impercettibili, solo i saggi riescono a trovarlo. Se non viene tramandata, la sapienza si esaurisce; se non viene compresa si disperde. È una tradizione che si rinnova sottovoce, solo così può durare. A contatto con le impurità del pensiero concreto si sgretola; l’utilità la inquina irrimediabilmente. La dottrina delle origini è pura e tale deve essere l’animo di chi la tiene in vita.
Alvise rifletté per qualche giorno, poi accettò l’incarico, affascinato dall’idea di proseguire il lavoro del nonno. Da allora seguiva l’avvicendarsi degli eredi, come era previsto dal suo ruolo.
Sulla pergamena, davanti lui, c’erano i nomi di coloro che avevano tramandato il segreto durante i secoli. L’ultimo era Franz: la sua morte improvvisa aveva bruscamente interrotto la catena della successione e la Cerchia doveva deliberare su come procedere.
Alvise guardava e riguardava la lista, incapace di trovare sollievo.
C’era un motivo preciso per cui il suo tormento, già diffuso e insinuante, aumentava la sua forza e diventava devastante. E riguardava Bianca.
Il coinvolgimento della ragazza aveva mescolato le carte e aveva spinto il suo destino in direzioni sconosciute, portandolo verso scelte che solo pochi mesi prima avrebbe ritenuto inaccettabili.
L’attaccamento di Alvise per Bianca era cresciuto poco a poco e progressivamente era diventato saldo e fondato come le radici di una quercia.
Da quando lei era arrivata nella bottega, la vita era cambiata. La sua presenza discreta aveva portato un inaspettato senso di armonia, come se tutti gli strumenti del laboratorio, abitualmente utili al il restauro, avessero di colpo rinnovato la loro funzione orientandosi al futuro.
Bianca era giovane e desiderosa di apprendere, lavorava con precisione e rispettava i suoi silenzi; Alvise aveva la netta sensazione che con lei, la mattina, entrasse nel laboratorio l’essenza della vita.
Aveva saputo che era cresciuta sola con la madre e questa condizione, unita alla propria solitudine, aveva alimentato un sentimento gentile e consolatorio che nel tempo aveva sviluppato un istintivo senso di protezione. A loro modo erano diventati amici: lui taceva e lei lo comprendeva dallo sguardo; lei lavorava e lui sentiva il suo umore.
Poi d’improvviso tutto era cambiato. Bianca aveva conosciuto Franz e il destino aveva cominciato a ruotare. I due ragazzi avevano preso a frequentarsi, colti da un interesse reciproco.
Alvise li osservava, giorno dopo giorno, mentre cadevano nel gioco dell’amore.
Come ogni padre, anche se padre non era, desiderava per Bianca un ragazzo capace di renderla felice, un uomo che sapesse rispettare la sua freschezza e ravvivare il suo sorriso. Franz non poteva farlo perché era tutto meno che sereno.
La sua condizione di erede l’aveva stretto nell’immobilismo fino quasi a soffocarlo, l’allontanamento della sorella aveva peggiorato la sua situazione rendendolo apatico e scontroso. Alvise, che seguiva la sua storia da sempre, comprendeva le sue pene e si preoccupava per Bianca: non era quello l’uomo che aveva sperato per lei.
Franz non aveva un lavoro stabile, viveva con i soldi lasciati dai suoi genitori e all’occasione si arrangiava con la vendita di qualche quadro; non aveva mai pianificato un’attività che in qualche modo potesse rappresentare un progetto o configurarsi come un disegno di vita. Difficilmente prendeva una decisione, la sua vita era stata condizionata dagli eventi in cui si era trovato immerso, privato dell’infanzia e dell’idea del futuro.
Il fatto di non avere parenti aveva reso lui e la sorella isolati e selvatici, mancanti del conforto dell’appartenenza.
Alvise non trovava una via d’uscita, guardava i due ragazzi e si crucciava: non riusciva a gioire per il loro amore.
Poi un’idea si insinuò tra i suoi pensieri, un’evenienza da non considerare; qualcosa che tradiva i suoi doveri e che lui non sapeva controllare. Cercò di allontanarla, di ricacciarla con determinazione; ma era un chiodo che spingeva nella testa e in breve si mutò in un’ossessione.
Si chiese che senso avesse seguitare ad obbedire, o se non fosse meglio provare a intervenire.
Così, lentamente, cadde nel liquido viscoso del dubbio: se voleva sostenere Bianca, doveva aiutare Franz.
Due possibilità presero forma davanti a lui: da un lato c’erano il divieto di avvicinare l’erede, la promessa fatta al nonno e il suo stesso senso di fedeltà alla Cerchia; dall’altro, semplicemente Bianca.
Scelse Bianca, e lo fece per amore.
Aspettò il momento giusto, un giorno in cui Franz era entrato in bottega e lei era andata a togliersi i vestiti da lavoro. Avvicinò il ragazzo, gli fece cenno di stare zitto e gli passò un foglietto ripiegato.
Franz inizialmente non capì e lo guardò sorpreso. Poi aprì la pagina e rimase ammutolito. Era un pezzo di carta del formato di un quaderno con una sottile riga beige sul bordo superiore. Nel mezzo, disegnato a matita, c’era lo schizzo di un pesce.
Franz comprese, dal disegno, che Alvise era uno dei tre custodi ignoti e che, palesandosi, stava contravvenendo al proprio giuramento.
Indugiò incredulo, colto da un turbinio di pensieri.
Tante volte aveva desiderato parlare con qualcuno, tante volte si era sentito così solo da diventare, ai propri occhi, inconsistente.
Per la prima volta da quando era bambino, ebbe l’impressione di essere sorretto. Gli parve di avere intorno una moltitudine di braccia che finalmente lo sostenevano con forza. Non immaginava che un membro della Cerchia fosse lì, così vicino a lui; non poteva sospettare che qualcuno avrebbe violato le regole della successione infrangendo quei dettami che per lui erano, ormai da tempo, un’invisibile prigione. Quel gesto, netto e disobbediente, aveva squarciato l’orizzonte delle aspettative lasciando passare la luce di nuove possibilità.
L’uomo lo guardava, facendo cenno di tacere. Il segreto andava conservato, ma qualcosa aveva vinto sulle norme della trasmissione.
Il pensiero che qualcosa si fosse incrinato lo fece sorridere e Alvise, di rimando, si sentì allentare. Era un sorriso d’intesa, colmo di consapevolezza: la dichiarazione di una riconoscenza destinata a durare.
Fu in quel preciso momento che la vita di Alvise trovò un senso: di colpo si sentì presente e soddisfatto, vivo completamente.
Aveva tradito la missione ma il cuore gli esplodeva in mezzo al petto: aveva trasgredito per amore e la persona aveva vinto sul progetto.
Avreste dovuto assistere all’incredulità di Franz, con gli occhi che brillavano per il sostegno che gli veniva offerto.
E avreste dovuto vedere l’espressione di Alvise, che finalmente provò la gioia d’esser cittadino.
Si chiese se era così che si sentiva un padre, quando interviene e non rimane ad aspettare: pieno per aver donato tutto, ricco delle scelte che ha saputo fare.
Il gesto di Alvise fu una freccia al centro del bersaglio, così precisa da doverla raccontare: la mano tesa da un uomo a un altro uomo, la luce oltre lo spiraglio, la sfrontatezza dell’amore che poteva salvare.