19. Il sole all’improvviso

Bianca entrò in casa e buttò la borsa sulla panca all’ingresso.

Aveva addosso una strana smania e non voleva stare in silenzio, sentiva il bisogno di riempire lo spazio con voci diverse dai propri pensieri e di riempire la testa con parole senza implicazioni.

Accese la televisione e continuò a spogliarsi, poi guardò nel frigo e tirò fuori lo sformato che avrebbe mangiato per cena.

Si legò i capelli e si lavò la faccia, finché decise di leggere una rivista.

Abbassò il volume, accese l’abatjour e si mise sul divano, lasciando fuori ogni rumore. Era stata una giornata lunga, su e giù per Trieste, e dopo la prima pagina si addormentò.

Fu svegliata dal suono del telefono, un paio d’ore dopo.

– Pronto? – disse assonnata.

La televisione, di sottofondo, mandava in onda un documentario sul sistema nervoso. Si alzò per spegnerla, ancora frastornata.

– Buona sera, sono il Dottor Macchia e chiamo dall’ospedale Ss. Giovanni e Paolo.

– Che cosa è successo? – si destò Bianca all’improvviso.

– Ho una comunicazione da farle: la signorina Egle Arcanti è rimasta ferita in un incidente. Non abbiamo trovato parenti da avvertire, chiamiamo lei perché è l’ultimo contatto sul suo telefono. Per fortuna l’apparecchio non aveva codici d’accesso e abbiamo potuto accedere ai suoi dati.

– Come sta Egle? Perché non mi ha telefonato lei?

– Ecco, vede…il quadro clinico al momento è stabile, ma non è fuori pericolo. Ha perso molto sangue e non si è ancora svegliata; le prossime ore sono decisive. Per questo, ogni stimolo è importante…

– Arrivo – Bianca agganciò senza lasciarlo terminare.

Si infilò le scarpe e il giubbotto e si precipitò per strada.

Percorse velocemente le calli e i ponti che la separavano dall’ospedale, impaziente di arrivare. Il vento freddo della strada si opponeva al movimento; le giornate erano più lunghe ma il tempo sembrava riavvolto e tornato a quel giorno di gennaio, quando era corsa all’ospedale per conoscere Egle.

Bizzarramente si trovava di nuovo lì, sugli stessi passi e ancora piena di domande a cui non sapeva rispondere.

Il dottore aveva parlato di un incidente ma lei, nella fretta, non aveva chiesto niente; non aveva la minima idea di cosa fosse successo e non sapeva che cosa immaginare. Possibile che Egle fosse in pericolo di vita? Si erano viste poche ore prima, separate alla stazione dopo essere tornate da Trieste. Che tutto fosse precipitato così, all’improvviso, sembrava semplicemente assurdo; eppure la chiamata era reale, qualcosa doveva essere accaduto.

Bianca ripeteva gli stessi pensieri come un disco rotto, un ragionamento inceppato che saltava il giro e cominciava da capo.

Poi cominciò a implorare Egle dentro di sé, come se fosse in ascolto.

– Resisti – diceva – resisti.

Ma l’angoscia saliva e la paura prendeva la forma di un demone che le correva accanto; veloce come lei, più forte di lei.

– Non mollare Egle, sto arrivando da te. Sto arrivando da te, sto arrivando da te.

Sto arrivando da te

Forse fu per caso, per la fibra dell’istinto a vivere o per la forza disperata dell’amore, ma quelle parole cavalcarono l’umidità del mare e giunsero alle orecchie di Egle, facendole pian piano aprire gli occhi.

Prima un leggero movimento delle ciglia, poi qualche scossa del volto e un sussulto delle mani; i sensi di Egle ripresero a sentire i suoni dalla finestra, l’odore del disinfettante e la morbidezza del lenzuolo. Capì di avere qualcosa intorno al collo, forse una fasciatura che le impediva di muoversi, e nel braccio l’ago di una flebo.

La prima cosa che vide non fu tanto chiara: davanti a lei, sfocati e sfalsati su improbabili distanze, c’erano quattro sagome scure.

Qualche secondo per mettere a fuoco e distinse, uno dopo l’altro, i volti di quattro uomini che la guardavano in silenzio.

Non fu sicura di aver visto bene e batté le ciglia, utilizzando le poche energie che aveva per chiudere gli occhi.

Quando li riaprì, gli uomini erano ancora lì.

Li scorse uno alla volta, cercando di capire chi fossero. Passò il primo, poi il secondo e quando fu sul terzo, indugiò. Aveva qualcosa di familiare, con quella barba bianca e la fronte piena di rughe: dove poteva averlo visto?

Continuava a fissarlo, nella confusione dei propri pensieri, cercando di collocarne i contorni da qualche parte nella memoria, poi ebbe un sussulto.

Possibile che fosse proprio lui? Lo scrutò con attenzione guardandone i capelli, la forma del naso, le mani appoggiate sulla spalliera del letto. Poi le tornò in mente  una volta che era andata a prendere Bianca a bottega e non ebbe più dubbi: l’uomo davanti a lei era Alvise.

– Salve Egle – disse lui vedendo che l’aveva riconosciuto.

– Che cosa è successo? – Egle parlava a fatica, con un filo di voce – Mi fa male la testa e non ricordo nulla.

Le rispose il quarto uomo, quello che non aveva ancora osservato.

– Hai avuto un incidente qualche ora fa, nell’appartamento all’Abazia.

Egle riconobbe il timbro roco prima ancora di inquadrarne il viso: si trattava dell’individuo che aveva fermato lei e Bianca nella Basilica di Aquileia, lo stesso che aveva sentito parlare con Franz in salotto quando ancora vivevano insieme.

Di nuovo trasalì, con un’espressione di sorpresa.

Erano forse loro, gli uomini che aveva davanti, i responsabili della sorte che l’aveva ingabbiata e poi distrutta. Tante volte, negli ultimi anni, si era chiesta chi fossero e che cosa avessero a che fare con la sua famiglia. Adesso ce li aveva di fronte e non aveva la forza di parlare.

 – Hai avuto un incidente – si ripeteva – un incidente. La voce le rimbombava nella testa e riempiva tutto lo spazio con un’eco senza fine.

Poi, pian piano, qualcosa cominciò a comparire nella sua memoria.

Si vide entrare in casa, nel silenzio assoluto, e attraversare ogni stanza. Subito dopo, quasi senza connessione, il flash di un’ira furibonda e di un istinto alla devastazione.

Gli oggetti scaraventati contro il muro, i superalcolici trangugiati con foga, le braccia che passavano sui mobili e spazzavano ogni cosa. E poi le urla della propria voce, che risuonavano nel cranio e scendevano in profondità, fino ai visceri dell’esistenza.

Che cosa era successo dopo? Nei suoi ricordi non c’era più niente e lei non si sapeva spiegare come fosse arrivata lì.

In quegli stessi istanti, mentre Egle assemblava ricordi confusi, Bianca varcava la porta dell’ospedale.

Chiese informazioni all’ingresso e si precipitò in corsia, per ironia della sorte nella stessa stanza in cui Egle era stata ricoverata a gennaio, quando l’aveva vista per la prima volta. Ebbe la sensazione di trovarsi in un girone infernale, dove tutto ripartiva daccapo. Invece, la scena che trovò all’arrivo fu completamente diversa.

Di fronte al letto, l’unico occupato, c’erano quattro uomini di spalle e stavano parlando con Egle.

Si fermò d’ istinto, colta dallo stupore per quelle presenze inaspettate, e tirò un sospiro di sollievo: Egle si era svegliata.

Stava per avanzare verso la ragazza ma rimase bloccata, irrigidita dalla visione che aveva davanti. Prima riconobbe la giacca, poi il dietro della nuca e la postura, finché fu certa della sua impressione: uno degli uomini era Alvise. L’aveva visto tante volte di spalle, in bottega, e non poteva sbagliarsi. Perché si trovava lì? Aveva forse a che fare con l’incidente?

Esitò immobile, quasi senza respirare. Le angosce dell’ultimo periodo prendevano improvvisamente corpo in quella stanza d’ospedale e diventavano concrete. Di lì a poco avrebbe scoperto in che modo l’uomo fosse coinvolto nella vicenda di Franz, ma all’improvviso non fu sicura di volerlo sapere: l’idea che Alvise potesse aver fatto qualcosa contro Franz la faceva inorridire. Se avesse avuto la conferma ai suoi timori, per lei tutto sarebbe cambiato: la fiducia nel prossimo, le aspettative sul futuro, il senso stesso della vita. Sentì le gambe che le tremavano e per un attimo ebbe l’istinto di scappare, poi si fece forza e indugiò, rimanendo ad aspettare.

Il silenzio fu rotto dalla voce di Egle. Parlava lentamente, col tono di chi è incerto sui propri pensieri.

– Siete stati voi a salvarmi? – chiese con voce sottile.

Alvise, proprio lui, prese la parola.

– Sono stato io, poi ho avvisato gli altri.

Bianca si sentì sciogliere dentro: Alvise aveva salvato Egle, non poteva essere un nemico.

– Mi stavi seguendo? – riprese la ragazza.

– Sì. Tenevamo d’occhio l’appartamento da qualche giorno.

Egle abbozzò un sorriso:

– Almeno questa volta è servito a qualcosa.

Avrebbe voluto chiedere tante cose: chi fossero gli altri uomini, come mai avessero le chiavi, se fossero stati loro a prendere e a riportare il quadro di Franz e, soprattutto, che cosa si nascondesse dietro a quel segreto che la faceva impazzire.

Invece, utilizzò tutte le forze per fare la domanda più struggente, quella che le opprimeva il petto come un nodo stretto a forza e che, giorno dopo giorno, l’aveva indebolita togliendole un po’ d’aria e di speranza. La liberò tutta d’un fiato, senza filtri e senza esitazione.

– Perché Franz non si è fidato di me? La mia famiglia mi ha esclusa.

Uscì così, la domanda delle domande. Un quesito capace di riscattarla o di distruggerla per sempre, affossarla nel fango dell’abbandono oppure donarle l’accoglienza eterna, come un abbraccio di bentornata al mondo.

Da troppo tempo non sentiva quel calore, consumata dall’idea del rifiuto. Nulla era più importante del motivo per cui era stata emarginata, nulla era più urgente di quel nodo da sciogliere e del peso di ignorare.

Bianca, rimasta in disparte, si chiese se fosse giusto ascoltare la risposta; avrebbe certamente chiamato in causa aspetti molto personali e lei non aveva palesato la propria presenza. Così, nel silenzio, fece qualche passo indietro. Egle la scorse e la chiamò; i quattro uomini, a loro volta, si girarono verso di lei.

L’espressione di Alvise, quando la vide, fu lo sguardo della liberazione.

La tensione accumulata negli ultimi mesi divenne un fluido che passò il muro del sospetto e fece entrare nuove possibilità. Le circostanze, adesso, erano carte rimesse nel mazzo, mescolate sul tavolo da gioco e non ancora scoperte.

– Vieni Bianca – disse lui – è una questione molto riservata, ma suppongo che dirlo sia completamente inutile.

– Proprio così – ribadì Egle – la informerei un attimo dopo che siete andati via.

– Immaginavo. Del resto, visto il punto a cui siamo arrivati, non è più il caso di tacere.

Bianca si avvicinò e si mise di fianco ad Egle, appoggiata sul letto.

– Ho bisogno di sapere perché Franz non si è confidato con me – ribadì lei.

– Posso rispondere io – disse l’uomo dalla voce roca – ma prima consentitemi di presentarmi.

Le due ragazze annuirono e lui si schiarì la gola.

Guardava Egle negli occhi, riconoscendole un ruolo che lei ancora non sospettava di avere.

Lentamente iniziò a parlare. Aveva il tono basso, la cadenza affaticata e un’insolita serenità, dovuta forse alla contezza di aver tenuto fede al ruolo della sua missione.

Nel silenzio dell’ospedale disse quello che sapeva e rivelò come fossero andate le cose, da quando aveva avvicinato Franz per la prima volta.

– Mi chiamo Bruno Casiero – proferì pesando ogni parola – e sono uno dei Custodi della Verità.

Poi cominciò il racconto, e nel cuore della notte il sole tornò.

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