24. Il fuoco dentro
In pochi minuti, Egle e Bianca arrivarono all’Istituto Santa Marta.
Era il giorno del mercato rionale e parcheggiarono in una strada vicina, fuori dalla zona dei banchi.
Scesero dalla macchina e presero a camminare velocemente con l’irragionevole speranza di recuperare un’occasione perduta, far rivivere un appuntamento mancato tanti anni prima e proseguire come se il tempo non fosse passato, riportando alla luce una realtà sommersa.
D’un tratto Egle ruppe il silenzio. Da quando aveva letto le indicazioni lasciate dai suoi genitori, sentiva il fruscio di una domanda che di tanto in tanto saliva in superficie, scalzando gli altri pensieri.
– C’è qualcosa che mi torna poco – cominciò.
Bianca rallentò il passo e la guardò. Lei riprese, cercando di inquadrare con le parole una sensazione ancora molto nebulosa.
– L’unica istruzione che i miei genitori hanno lasciato, a parte quella di concentrarci sul cerchio, è di cercare la signora Ottavia. Ora, io mi chiedo, perché non ci hanno comunicato direttamente dove trovare i volumi a cui fanno riferimento? Quando hanno scritto la lettera non sapevano quanto tempo sarebbe passato, in quel periodo Ottavia sarebbe potuta scomparire, partire o anche morire. Possibile che non ci abbiano pensato? Adesso lei è l’unica che possa aiutarci a trovare quello che cerchiamo; che cosa facciamo se non c’è più?
Bianca si arrestò.
– Hai ragione – disse pensierosa – forse i vostri genitori volevano farvi incontrare con lei a ogni costo.
– A ogni costo?
– Sì, insomma… senza darvi un’alternativa.
Arrivarono al cancello dell’istituto e suonarono il campanello. Una volta entrate, si trovarono in un grande atrio da cui partivano diversi corridoi e una larga scala centrale. I pavimenti appena lavati riversavano nell’aria un odore acre di ammoniaca, la luce passava dalle vetrate e illuminava il mobilio di legno scuro su cui erano appoggiati pochi soprammobili senza armonia.
Dopo qualche secondo, furono avvicinate da una donna in abiti religiosi, una figura magra e scavata con dei ciuffi di capelli bianchi che sporgevano dal velo.
– Buona sera, sono suor Cristina, come posso aiutarvi? – chiese la monaca con gentilezza.
– Cerchiamo la signora Ottavia – rispose Egle.
La suora si fermò di colpo.
– Ottavia? – ripeté stupita.
– Sì, il cognome non lo sappiamo.
– Non occorre, abbiamo una sola ospite con questo nome.
– Quindi è qui! – esclamò Bianca.
– Sì. Posso chiedervi chi siete? Conoscenti, parenti… vedete, Ottavia non riceve molte visite.
– Amiche – rispose prontamente Bianca – cioè, figlie di amiche.
– Capisco. Vi porto da lei. Prima, però, è bene che sappiate qualcosa sulle sue condizioni di salute. La signora Ottavia è qui da molto tempo, quando è arrivata era in buone condizioni ma poco dopo è stata colpita da un ictus e non si è mai ripresa completamente. Nell’ultimo anno ha avuto un peggioramento, del resto è molto anziana. Ha perso la vista e non si alza più, da qualche tempo è parecchio debole. Non è detto che vi riconosca, la sua mente è una macchina inceppata, qualche volta è accesa e qualche altra è spenta. Se in questo momento non fosse in grado di rispondervi, non abbiate timore di farle sentire la vostra vicinanza. Gli anziani avvertono l’affetto anche se non capiscono più; sentono il tono della voce, il garbo di una carezza, colgono qualunque gesto si presenti come una forma di premura nei loro confronti. Una semplice visita, per loro, è un evento straordinariamente importante. Adesso seguitemi, vi accompagno nella sua stanza.
La suora si avviò verso le scale e le due ragazze le andarono dietro.
Dopo la prima rampa, Egle avvertì una strana vibrazione. Una scossa sottile le attraversò le gambe e si piantò all’altezza della vita, come una spina entrata sottopelle all’improvviso. Non disse nulla e proseguì, colta alla sprovvista da quell’episodio inaspettato. Dopo qualche passo il tremolio riprese. Sentì un calore repentino partire dall’estremità del suo corpo per poi giungere al centro; ebbe la sensazione che la nuca, le piante dei piedi e le punte delle dita fossero a contatto col fuoco e portassero le fiamme all’interno. C’era qualcosa, in quello spazio contenuto, che rendeva l’atmosfera sovraccarica; un campo di forza capace di attrarre ogni singola parte del suo corpo e di farla oscillare in un concerto scoordinato, come un ammasso di strumenti senza eufonia. Quando furono vicine alla stanza si sentì avvampare, pervadere da un incendio che si diramava nei rigagnoli delle vene e agitava ogni atomo della sua persona. Una spinta prese a tirarla da una parte e dall’altra, rendendola incapace di stare diritta. Sentì le viscere staccarsi dalle ossa, allungate da correnti trasversali. Per qualche attimo divenne solo corpo, incapace di connettere il pensiero. Sangue che scorreva e pelle che sentiva, le sue cellule entrarono in risonanza con le vibrazioni di un fulcro sconosciuto che emanava energia al di là della porta.
Bianca si fermò a osservarla. Riconobbe i lineamenti scomposti della prima volta, quando l’aveva vista trasfigurarsi sul litorale di Venezia. Allora aveva pensato che quella reazione fosse dovuta al suo rapporto con Franz, alla somiglianza del loro dolore e alla circostanza dell’evento che le aveva avvicinate, come una sorta di ricongiungimento con la realtà.
Che cosa era successo, adesso, per provocare quegli spasimi? Egle stava evidentemente avvertendo qualcosa, tramite i piedi o attraverso tutta la persona, da cui risultava profondamente turbata.
Alzò gli occhi e vide suor Cristina che, davanti a loro, osservava immobile la scena. Le parve che il suo contegno trattenuto fosse poco naturale per la circostanza, inadatto a quella gestualità disgregata. Per un attimo notò, nel suo sguardo, il riflesso di una cognizione precisa, la scintilla di una consapevolezza difficile da armonizzare con quello che stava succedendo.
Dopo qualche secondo, Egle tornò in sé. Il suo viso, quasi senza espressione, era pallido e incerto. Bianca le fece un sorriso e annuì, manifestando la sua vicinanza.
– Tutto bene? – le chiese con gli occhi.
– Non lo so, sento un turbamento che non riconosco.
Suor Cristina, impassibile, bussò alla porta.
– Vado avanti io e la avverto che ci siete – disse sottovoce.
Bianca ed Egle fecero un cenno di assenso.
Aspettarono qualche secondo ed entrarono nella stanza.
Si trovarono in un ambiente pulito, immerse in un silenzio irreale, come se dentro non ci fosse nessuno. La finestra, con la tenda allungata, lasciava passare una luce soffusa che accendeva il colore bordò della tappezzeria. Sulla sinistra, di fianco al muro, era sistemato un letto su cui si intravedeva una figura esile e composta, rimboccata sotto un lenzuolo perfettamente stirato.
La monaca si avvicinò e le parlò con dolcezza.
– Ottavia, ci sono visite per te.
Nessuna risposta.
Le fece una carezza sui capelli e si avviò verso la porta.
– Non è cosciente – disse uscendo – ricordatevi quello che vi ho detto e state con lei quanto volete; io vi aspetto fuori.
Uscì dalla stanza e chiuse l’uscio con garbo.
Proprio in quel momento, Ottavia si mosse.
Bianca ed Egle fecero per avvicinarsi quando sentirono una voce sottile, distinguibile a male pena.
– Sei tu Franz?
Le due ragazze si bloccarono, impietrite.
Dunque Ottavia conosceva Franz? Il tono di quella domanda lasciava supporre una confidenza maturata nel tempo, una forma di intimità capace di rivelare, in poco più di un secondo, la spontaneità di un rapporto avviato. Evidentemente non sapeva che Franz era venuto a mancare o forse l’aveva saputo e se ne era scordata, perdendo la notizia tra i meandri della sua mente offuscata.
Egle fece qualche passo avanti, fino a raggiungere il letto. Quando fu vicina ebbe un fremito; la sua pelle divenne un via vai di cariche mosse dall’impulso di una elettricità diffusa. Prese la sedia e si accomodò vicino alla donna.
Bianca, qualche metro più in là, assisteva in silenzio. Stava succedendo qualcosa che non riusciva a interpretare, una realtà intangibile stava prendendo consistenza in quella stanza e lei non poteva fare altro che attendere per vederla formare.
Egle toccò la spalla di Ottavia. La sua mano, a contatto con la donna, sentì un impulso invisibile, la forza di un’energia che era insieme attrazione e istinto di allontanamento, in un duello alla pari. Improvvisamente sgranò gli occhi, come se avesse colto, in un istante, il senso di quella visita.
Si avvicinò al suo orecchio e parlò piano.
– Sono Egle – disse.
Ottavia mosse le palpebre, tenendo gli occhi chiusi.
– Egle – ripeté – sei proprio tu?
Respirava a fatica; il suo corpo, quasi senza pelle, lasciava intravedere i tremiti del sistema nervoso. Accennò a un sorriso e mosse la mano, finché perse conoscenza e tornò silenziosa.
La ragazza rimase immobile per qualche secondo, poi si girò verso Bianca.
– Ha lo stesso mio sangue – disse concisa.
– Sei sicura?
– Sì.
Tirò la testa indietro, mentre con la mano si copriva la bocca.
– Ho una parente, che sensazione strana.
– Ecco perché i vostri genitori volevano farvi venire da lei.
– Già, a ogni costo.
Le parole che Bianca aveva detto prima di entrare nell’istituto trovavano adesso un significato. Le aveva pronunciate senza alcuna consapevolezza, come nota di un’ipotesi qualunque. Improvvisamente, dopo che la realtà si era ampliata, erano diventate esatte.
Egle guardò Ottavia. Il naso, la bocca, l’attaccatura dei capelli; cercò in quelle forme qualcosa di sé, come se i lineamenti della donna potessero darle il diritto di esistere, giustificando la propria presenza nel mondo.
– È molto anziana, potrebbe essere mia nonna.
Il suono di quelle parole la scosse da dentro, facendola tremare.
– Forse Suor Cristina sa qualcosa – aggiunse Bianca – magari ha visto Franz entrare qui qualche volta.
Uscirono nel corridoio e si diressero verso la monaca, girata di spalle in direzione della finestra.
– Avremmo bisogno di parlarle.
Lei annuì, fece qualche passo e aprì la porta accanto alla stanza di Ottavia.
– Accomodatevi in questo ufficio.
Si sedettero ai due lati del tavolo, una scrivania scura su cui erano appoggiati diversi plichi di carta e una lampada col paralume beige. Dietro di loro, una libreria a tutta parete conteneva schedari e cartelle di amministrazione.
La suora guardò le ragazze e fece cenno di procedere.
– Ecco – iniziò Egle – è difficile da spiegare, ci sarebbero tante cose da dire. Spero che lei possa aiutarmi a sciogliere i nodi di una situazione complicata. Non mi prenda per matta, so che può sembrare strano ma ho motivo di pensare che Ottavia sia mia nonna.
Suor Cristina la fissò con determinazione.
– Lei è la sorella di Franz? – chiese.
Egle abbassò lo sguardo.
– Adesso lui non c’è più, ha avuto in incidente a luglio.
– Mi dispiace, non lo sapevo.
– Veniva qui spesso?
– No, da diversi anni non si faceva vedere, ma Ottavia lo aspettava. Rammentava spesso i vostri nomi, soprattutto da quando ha perso la lucidità.
– Come faceva a sapere che Franz era suo nipote? Gliel’ha detto lei?
– Ottavia è sempre stata molto riservata, raramente ha parlato di sé.
– Allora chi gliel’ha detto?
Suor Cristina fece una pausa, scegliendo le parole da utilizzare. Poi, senza esitazione, prese a raccontare.
– È giusto che sappiate – iniziò – sono cose che riguardano la vostra famiglia. Vedete, io mi occupo della contabilità dell’istituto e passo molto tempo in questa stanza. Da qui si sente quello che succede nella camera di Ottavia, al di là della parete. Quando Franz venne la prima volta mi trovai, mio malgrado, a sentire la loro conversazione. Lui era molto giovane, poco più che un ragazzino, e parlava a voce alta. Non potei fare a meno di ascoltare.
– Che cosa si dissero?
– Inizialmente poco. Lui si presentò senza sapere che lei fosse sua nonna. Era venuto per chiederle aiuto, cercava delle informazioni e le mostrò una lettera. Da quel momento tutto cambiò. Leggendo, Ottavia fu colta dallo sconcerto; disse di non avere notizie della figlia da molti anni e di aver perso i contatti a seguito di una lite durissima, che definì irreparabile. Tramite la lettera era venuta a sapere che quella figlia non c’era più e che esistevano, invece, due nipoti già grandi. Ebbe una reazione incontrollata e cadde nel baratro più profondo, trafitta da un dolore ramificato. Da un lato si trovò sconfortata, costretta a rinunciare alla possibilità di un pentimento e privata dell’idea del ritorno, dall’altro si mostrò furibonda, ferita per essere stata tenuta all’oscuro di quelle nascite importanti. Sfogò la sua rabbia su Franz, che non aveva colpe. Infuocata dalla sofferenza e dal risentimento, si mostrò con lui aggressiva e distaccata: svelò la propria identità e gli disse malamente che Lidia, sua figlia, era vostra madre.
Su quella rivelazione, Egle ebbe un contraccolpo. Ottavia era dunque la nonna materna: possibile che il suo nome non fosse mai venuto fuori, quando lei e Franz erano bambini? In un attimo le tornò in mente il dito di sua mamma, mentre mostrava il pesce nella basilica di Aquileia. “Qui sono le nostre radici”, aveva detto. Significava forse che ad Aquileia avevano un legame di sangue, l’appoggio di una casa, una famiglia da cui tornare? Perché allora quella famiglia si era spezzata, al punto da nascondere ai nonni la loro presenza?
Suor Cristina riprese a parlare.
– Dopo quella conversazione, Franz se ne andò e per qualche giorno non si fece vedere. Quando tornò, era molto arrabbiato. Accusò Ottavia di essere responsabile della vostra sorte ed espresse il malessere di essere stati orfani. Raccontò, urlando, che eravate passati da una casa all’altra, dati in affido come pacchi, con l’orribile pensiero di essere soli al mondo. Poi pretese di sapere che cosa era successo, quali fossero le cause di quell’allontanamento che aveva coinvolto tutti, provocando gli effetti che si erano riversati su di voi.
Lei rispose che non aveva mai approvato il matrimonio di sua figlia con vostro padre. Parlò di scelte sciagurate, disse che per seguire lui, Lidia aveva cambiato identità scomparendo chissà dove. Pianse e si animò ricordando vostro nonno, che in punto di morte aveva invocato il suo nome, senza che lei si facesse vedere. Entrambi tirarono fuori motivi di rabbia e di rancore, ancorati alle proprie posizioni. Nessuno dei due tese la mano all’altro e rimasero come erano prima di incontrarsi: perfetti sconosciuti.
Suor Cristina fece una pausa ed Egle si inserì nel discorso.
– Come è possibile che Ottavia non abbia provato il desiderio di riconciliarsi con noi? Eravamo i suoi nipoti.
– Aveva il cuore indurito – rispose Suor Cristina – era corrosa dall’astio e non seppe liberarsene. Allontanò Franz dalla sua vita come Lidia aveva allontanato lei. Dopo quegli incontri, fu colpita dall’ictus e perse parte delle funzionalità cerebrali, non sapremo mai che cosa avrebbe fatto se fosse rimasta lucida: magari, nel tempo, avrebbe tentato un riavvicinamento. Ma ormai era troppo tardi, lui se ne era andato e non si fece più vedere.
– Ecco perché Franz non ti ha coinvolto – considerò Bianca – non voleva che tu provassi la stessa animosità. Era certamente molto arrabbiato: Ottavia non si era comportata bene ma anche vostra madre aveva delle colpe, non vi ha mai detto che avevate dei nonni.
Lei confermò:
– Posso comprendere come si sia sentito: abbandonato due volte, due volte vittima dello stesso dolore. Tenendomi fuori, Franz ha scelto di non prendere posizione. Non si è schierato dalla parte di nostra madre, che pure nella lettera lo invitava a coinvolgermi, e nemmeno da quella della nonna. Entrambe lo avevano deluso e lui è caduto in uno stato di depressione, un malessere che aveva una ragione precisa, anche se io non la capivo.
– Non l’ho capita nemmeno io – aggiunse Bianca – Franz aveva dentro l’inferno e non me ne sono accorta.
Suor Cristina riprese il discorso.
– C’è una cosa, però, che voglio dire in difesa di Ottavia. Un piccolo gesto che apre uno spiraglio all’idea del perdono. Quando ancora abitava nella propria abitazione, Lidia andò a trovarla. Entrò con un plico di fogli e le chiese di parlare. Probabilmente voleva dirle di voi, farle sapere che aveva dei nipoti.
Purtroppo, la conversazione non andò a buon fine e cominciarono a litigare per i soliti motivi. Lidia se ne andò sbattendo la porta, senza comunicare alcunché. Lasciò i fogli sul tavolo, forse per scelta e forse per dimenticanza, e non passò mai a riprenderli. Più volte Ottavia ebbe la tentazione di gettarli nel fuoco ma non lo fece mai; probabilmente in cuor suo sperava di renderli di persona.
– Dove sono adesso quei fogli? – Chiese Bianca di getto.
– Sono qui, in questa stanza. Ottavia li consegnò a Franz ma lui li riportò qualche giorno dopo, disse che non voleva tenerli in casa.
La monaca si diresse verso la libreria. Prese un mazzo di chiavi dalla tasca della tunica e aprì lo sportello inferiore, estrasse il plico e lo mise sul tavolo.
– Ecco qua.
Poi guardò l’orologio.
– È l’ora della preghiera – concluse – vi devo salutare.
Prima di avviarsi all’uscita, si girò di nuovo verso Egle.
– Spero che lei voglia portare la pace, l’astio è un mostro che non conosce sazietà.
Tornarono tutte e tre nel corridoio e la suora chiuse l’ufficio. Poi si congedò e si diresse verso la cappella.
Bianca ed Egle si trovarono sole, col blocco di fogli in mano.
– Ho bisogno di un favore – disse Egle – vorrei stare un po’ da sola con Ottavia.
– Certo, vado a fare un giro. Bastano un paio d’ore?
– È un tempo perfetto, grazie.
Bianca si avviò verso le scale ed Egle bussò alla porta della stanza. Non sentì risposta ed entrò. Il sole fuori era calato, nella camera brillava la luce fievole dell’abatjour sul comodino. Avanzò verso il letto e quando fu vicina si tolse la giacca. Poi si sfilò le scarpe e si adagiò di fianco alla donna.
Aveva addosso una strana inquietudine, una parte di lei era sdegnata per il dolore che era stato causato e per l’affetto che le era mancato. Fu tentata di cedere a quel sentimento di ingiustizia e di assecondare l’istinto alla collera. Ma gli ultimi anni erano stati angoscianti, e la chiusura aveva solo amplificato il dolore.
Fermò il pensiero e si lasciò attraversare dalla quiete di quella stanza muta. Intorno non c’era più nessuno, Franz e i suoi genitori se ne erano andati e lei era stanca di rincorrere la morte.
Si accovacciò vicino a Ottavia, accostando i loro bordi e i loro respiri.
– Nonna – chiese dento di sé – che cosa faresti se potessi tornare indietro?
Ottavia non si mosse, ma qualcosa dentro di lei si accese.
Le sembrò di ragionare con una mente lucida, di ricordare ogni volto e di vedere nuovamente, con occhi diversi e liberi.
– Perdonami Egle – pensò – se tornassi indietro cambierei ogni cosa.
Un attimo ancora, e i loro battiti divennero uno solo.
Rimasero ferme ad ascoltarsi, connesse in un unico suono. Erano due figure sottili con le ossa appuntite, due profili diritti, due cuori pulsanti tra la pelle e la vita.
