25. La memoria del seme

Bianca ed Egle tornarono a Venezia col blocco di fogli ricevuti da suor Cristina.

Avevano pensato di aprirlo per strada, appoggiate sul tavolo di un bar qualunque, ma al momento di fermarsi avevano cambiato idea, spinte dall’idea di raggiungere un luogo familiare. Gli ultimi giorni erano stati frenetici e sentivano l’esigenza di rilassarsi, mettersi comode e prendersi il tempo di leggere tutto con calma, senza il pensiero di dover ripartire.

Andarono a casa di Egle, dove trovarono Nina.

– Alla buon’ora! – disse lei quando le vide entrare.

Si resero conto, in quel momento, che Nina non sapeva niente dell’incidente avvenuto dopo il rientro da Trieste e che poteva essersi preoccupata.

Fortunatamente, la ragazza aveva passato la notte fuori e non si era accorta dell’assenza di Egle; all’alba era partita direttamente per una tratta breve ed era tornata da un paio d’ore. Solo adesso, con la giornata che giungeva a termine, aveva realizzato che non si erano più viste e cercava di ricordare se l’amica, tornando da Trieste, le avesse detto qualcosa sui propri progetti.

Il lavoro da hostess le aveva abituate a frequentare la casa in modo discontinuo; i viaggi da un continente all’altro avevano reso ordinaria l’idea di incontrarsi ogni tanto, senza alcuna pianificazione e senza routine per gli orari. Ciò nonostante, da tempo avevano preso a considerarsi parte della stessa famiglia, appoggiate l’una all’altra non per le questioni pratiche della convivenza ma per quelle, assai più importanti, di un irrinunciabile legame affettivo. La loro amicizia era per entrambe un approdo, il luogo accogliente in cui posare l’armatura a fine di ogni battaglia, lo spazio in cui trovare qualcosa che potesse somigliare alla pace.

A sentire le parole pronunciate da Nina, Bianca ebbe la percezione di essere responsabile, colpevole per non averla chiamata.

– Scusa – disse di getto – dovevo avvisarti io ma è successo tutto così in fretta…

– Di cosa dovevi avvisarmi?

Egle mostrò la fasciatura sotto il foulard:

– Ho avuto un piccolo incidente – commentò – ma ora sto bene, è tutto risolto.

Nina la guardò stupita, non fece in tempo a chiedere spiegazioni che Egle riprese a parlare, mostrando una certa concitazione.

Passò di palo in frasca, dando per scontati dei passaggi che erano invece completamente oscuri. Tralasciò l’episodio dell’ospedale e l’incontro con gli uomini della Cerchia, sorvolò la discendenza da Petrarca e raccontò, invece, della lettera dei propri genitori, rinvenuta in un quadro che Franz aveva regalato a Bianca. La ricerca, concluse Egle, adesso era volta a trovare i documenti menzionati nella lettera; i fogli dati da suor Cristina avrebbero potuto indicare una strada per procedere.

Di quel racconto affannato, Nina capì poco o nulla. Lo dichiarò con candore, pensando che dipendesse dalle sue scarse capacità intellettive. Tenne però a precisare che di suore non avevano mai parlato, anche se questa Cristina aveva un nome da pop star.

– Forse mi sono espressa male – si giustificò Egle – comincio a non connettere i pensieri. Ho bisogno di riposare un po’.

– Sono stanca anch’io – aggiunse Bianca.

– Facciamo un riso al burro e rimani qui a dormire, che dici? Domani mattina ci svegliamo presto e ci mettiamo subito a lavoro. Sono in malattia per qualche giorno e non devo partire.

– Ok, va bene. Anche io domani non devo andare a bottega, il sabato siamo chiusi. Mi prestate un pigiama per la notte?

– Tute e pigiami qui non mancano – commentò Nina – prendi pure quello che vuoi. Io devo uscire. Se non vi trovo sveglie, ci vediamo domani.

– Ok Nina, grazie.

Bianca ed Egle cenarono, poi si addormentarono di colpo. I loro pensieri, sospesi nell’aria, contarono le ore per tornare in movimento e rientrare là dove erano stati concepiti.

Con le prime luci dell’alba, Egle si svegliò e andò in cucina a preparare il caffè. Bianca la raggiunse poco dopo, prendendo posto per la colazione.

Alle sette erano pronte per iniziare.

Appoggiarono i fogli sul tavolo e sollevarono la coperta di cartone.

Davanti a loro comparve il frontespizio di una raccolta.

DOCUMENTI PER LA STORIA DELL’AUGUSTA DUCALE

BASILICA DI SAN MARCO IN VENEZIA

DAL NONO SECOLO SINO ALLA FINE DEL DECIMO OTTAVO

Dall’archivio di stato e dalla Biblioteca Marciana in Venezia

– La biblioteca Marciana è dove lavoravano i miei genitori – considerò Egle.

– Chissà se c’entra qualcosa con la vostra storia.

– Andiamo avanti.

Sollevarono la facciata e scoprirono una pagina contenente un elenco di note e conteggi, tutti minuziosamente datati, che rendevano conto di eventi accaduti nel 1738. Era l’estratto di un documento più ampio in cui, evidentemente, venivano annotate le attività riguardanti il plesso della Basilica di San Marco. Dai lavori di manutenzione alle spese, tutto quello che ineriva la Basilica era riportato in quel rapporto e loro ne avevano un frammento tra le mani.

La prima nota riguardava un esborso con cui liquidare i lavori di mosaico messi in opera da Leopoldo dal Pozzo; Egle e Bianca lessero velocemente e andarono oltre.

La seconda nota, invece, iniziava col nome di Francesco Petrarca; quindi si fermarono e presero fiato. Era un trafiletto di quasi due colonne, che lessero lentamente per dar senso a uno stile settecentesco che non erano abituate a decifrare.

Vi era riportata la descrizione di un accordo tra Petrarca e la Repubblica di Venezia, col quale il poeta aveva donato alcuni manoscritti alla chiesa di San Marco in cambio di un’abitazione, con lo scopo di istituire una grande biblioteca, di importanza pari a quelle antiche. Il progetto, si spiegava, non andò in porto e i testi furono incredibilmente dimenticati per tre secoli. Furono ritrovati nel 1632 in una stanza posta sopra la basilica, dietro il gruppo scultoreo dei famosi cavalli, sciupati in parte dall’incuria e dall’umidità. Nel 1738, come riportava l’evento nello schedario, i libri vennero sottoposti a un’ulteriore ispezione volta a operare un nuovo restauro e a confermare la paternità petrarchesca.

Vennero catalogati ottantaquattro manoscritti, di cui solo quaranta furono posti nel catalogo dei codici petrarcheschi; gli altri furono ritenuti non attribuibili al Poeta. “Il loro contenuto”, si leggeva, “versa sopra varie materie che non somministrano verun motivo di poter formare ragionevole giudizio che fossero del Petrarca”.

La nota concludeva auspicando che i volumi venissero collocati nella pubblica Libreria di San Marco, col benestare dell’Eccellentissimo signor cavalier Procurator Tiepolo Bibliotecario, benemerito custode e promotore della medesima Biblioteca.

Una volta finito di leggere, Bianca ed Egle fecero un sospiro e rimasero in silenzio per qualche secondo.

In quel resoconto doveva esserci qualche informazione che aprisse una porta alla loro ricerca; si trattava adesso di metterla a fuoco per poter decidere le prossime mosse.

– Dobbiamo andare alla Biblioteca Marciana – commentò Bianca dopo un po’- mi pare che il messaggio sia questo.

Egle prese il foglio e lo scorse tra sé, pensierosa.

– Dice anche qualcos’altro – aggiunse.

Bianca la osservò, in attesa di sentirla continuare.

 Lei riprese.

– Sono stati rinvenuti dei codici non attribuibili a Petrarca, opere contenenti argomenti giudicati insoliti per lui. Ricordi che cosa c’era scritto nella lettera dei miei genitori? Il Canzoniere ha una chiave di lettura esoterica, contiene dei riferimenti matematici nascosti. I testi potrebbero essere su quella roba lì: materiale che aveva raccolto per i suoi studi oppure scritti che aveva messo a punto in una direzione che la critica tradizionale non è stata in grado di comprendere.

Bianca la guardò ammirata, poi lasciò sbocciare un sorriso.

– Chi ha detto che le bionde sono stupide?

– Le more – controbatté Egle ridendo – non c’è dubbio che questa diceria provenga da loro.

– Allora che facciamo?

– Andiamo alla Marciana.

– Un attimo, però. La Biblioteca Marciana è enorme, non sappiamo neanche dove cercare. L’ho frequentata per degli studi sul restauro, anni fa. Ci sono intere sezioni irraggiungibili, accessibili solo per il personale addetto. Dubito che i tuoi genitori abbiano nascosto i testi dove si può arrivare facilmente.

– Hai ragione. Dobbiamo chiedere aiuto a qualcuno.

Poi Egle rammentò la fine della lettera:

– “Fidatevi degli uomini che vi hanno consegnato la lettera” – recitò a memoria – “potete rivolgervi a loro in caso di aiuto”.

Bianca comprese il riferimento ai custodi della Cerchia.

– Alvise! – esclamò di rimando.

– Esatto, proviamo a sentire se hanno qualche suggerimento da darci. Sarà troppo presto per telefonargli?

– Alvise è molto mattiniero, sarà sveglio da ore.

Bianca prese lo smartphone e fece partire la chiamata.

Dopo qualche squillo, l’uomo rispose.

– Bianca?

– Ciao Alvise, io ed Egle abbiamo bisogno del vostro aiuto.

– Dimmi tutto.

La ragazza fu sintetica, giunse al punto senza dare troppe spiegazioni.

– Dovremmo entrare nella biblioteca Marciana fuori dall’orario di apertura.

L’uomo capì, da quella richiesta esplicita e diretta, che le ragazze avevano una nuova pista. Non chiese nulla in proposito, rispettoso del proprio ruolo. Non era previsto che lui entrasse in possesso di certi particolari e tenne fede alla sua missione, rimanendo ai lati della scena.

In cuor suo, tuttavia, gioì, pensando che qualcosa si stesse muovendo.

– Volete stare dentro da sole? – chiese semplicemente.

– Sì, sarebbe meglio.

– Faccio qualche ricerca e vi faccio sapere il prima possibile.

– Va bene, a presto.

Una volta chiusa la telefonata, Bianca ed Egle si guardarono con aria interrogativa. La frenesia delle ultime scoperte si era arrestata di colpo, obbligandole a una pausa forzata.

Per ingannare l’attesa, si misero a sistemare la casa. I letti, i piatti della colazione, i vestiti appoggiati qua e là. Nonostante non sapessero quanto tempo ci fosse da attendere, decisero di non separarsi. Nessuna delle due aveva voglia di affrontare il silenzio dei propri pensieri né di incorrere in domande a cui non avrebbe saputo rispondere.

Fortunatamente Alvise richiamò dopo un paio d’ore.

Bianca mise il viva voce.

– Novità?

– Abbiamo una speranza di farvi entrare – disse lui – ma non c’è tempo da perdere.  Una delle custodi della biblioteca era amica della madre di Egle. Si chiama Ester, ma oggi è il suo ultimo giorno di lavoro; da lunedì sarà in pensione. Andate lì prima della chiusura, alle 13,30 e provate a parlare con lei. È l’unica possibilità che avete per accedere alle sale fuori dall’orario delle visite: state attente a quello che dite e non fate passi falsi. Lei non vi aspetta, potrebbe rimanere spiazzata dalla vostra richiesta.

– Staremo attente, grazie.

Bianca riagganciò il telefono.

– Hai qualche ricordo di questa Ester?

– Non mi pare.

Guardarono l’orologio: erano le 10:30 e dovevano trovare il modo di riempire le tre ore che mancavano alla chiusura della biblioteca.

Provarono a formulare diverse ipotesi su quello che avrebbero potuto dire per presentarsi, ma nessuna appariva convincente.

Man mano che procedevano nelle congetture, diventava sempre più forte il senso di scoraggiamento. Difficilmente Ester avrebbe accettato la loro richiesta, era passato troppo tempo e non era detto che si ricordasse della madre di Egle; il fatto che stesse per andare in pensione, poi, l’avrebbe convinta a tenersi alla larga dai rischi di infrazione per quell’ultimo giorno in cui era a servizio dello Stato.

Alle 12:30, un po’ in anticipo sui tempi, uscirono di casa.

Fecero un giro per il centro e quando fu l’ora, si recarono in Piazza San Marco.

Entrarono subito prima che venisse serrato il portone, quando ormai non c’era più nessuno.

Un funzionario andò loro incontro.

– Stiamo per chiudere – annunciò con garbo – se volete potete tornare lunedì.

– Cerchiamo Ester – disse Egle – vogliamo salutarla prima che vada in pensione.

– È un pensiero gentile, ve la chiamo.

L’uomo si avvicinò alla postazione del prestito e prese il telefono per comunicare con l’interno. Compose il numero e attese la risposta.

– Ester, ci sono due ragazze che vogliono salutarti.

Poi l’uomo riagganciò.

– Attendete qui, arriva subito.

Lui riprese il giro di controllo e loro rimasero ad aspettare.

Dopo pochi minuti, videro arrivare una signora alta e magra, con i riccioli color mogano.

A guardarla da lontano, nessuno avrebbe detto che fosse prossima alla pensione. La figura slanciata ingannava la percezione dei segni che il tempo aveva lasciato sulla sua persona.

– Buon giorno – disse quando fu vicina. Osservava le ragazze con aria incerta; non le sembrava di averle mai viste e si stupiva che volessero salutarla.

– Avremmo bisogno di parlarle cinque minuti – disse Egle – è una questione abbastanza delicata.

Lei fu indecisa per qualche secondo, tentata di lasciarle andare senza riceverle. Poi prevalse la curiosità di sapere che cosa volessero e fece un cenno di assenso.

– Va bene – disse – venite con me.

Attraversarono un paio di sale ed entrarono in un corridoio di servizio. Da lì giunsero in un magazzino dove erano appoggiati secchi, stracci e altri attrezzi per le pulizie. 

In fondo, vicino alla finestra, c’era un tavolo che gli impiegati della biblioteca utilizzavano per pranzare, lontano dagli utenti e dai visitatori.

Si misero sedute e lei le invitò ad esprimersi. Aveva un atteggiamento trattenuto e si muoveva con una gestualità rigida, ostentando l’intenzione a mantenere le distanze.

Egle e Bianca concretizzarono che i minuti a seguire sarebbero stati decisivi e che la diffidenza lasciata trapelare da Ester non avrebbe agevolato la loro missione. Non avevano trovato il modo giusto con cui presentarsi e adesso avevano davanti una realtà sfuggente, in cui tutto era da inventare.

Egle esordì con una frase concisa, l’unica che potesse essere compresa all’istante.

– Sono la figlia di Lidia.

Poi rimase in silenzio.

Ester sgranò gli occhi, come se quell’affermazione l’avesse riportata indietro nel tempo. Erano passati più di venticinque anni, ma Lidia occupava ancora un posto nella sua memoria.

In un attimo si ammorbidì e lasciò trapelare un sorriso di commozione.

– La figlia di Lidia – ripeté piano. Poi si rivolse a lei:

– Mi ricordo di te – disse mentre la fissava – eri una bambina così bella. Ricordo anche tuo fratello, vi somigliavate molto.

– Mio fratello non c’è più – commentò Egle con tristezza.

– Mi dispiace, non lo sapevo.

Poi presero a parlare, partendo dai ricordi che entrambe avevano di quel periodo.

Egle raccontò che cosa era successo dopo che i suoi genitori erano venuti a mancare, parlò degli affidi e di come lei e Franz fossero cresciuti in solitudine. Presentò Bianca, indicandola ironicamente come una cognata mancata.

– È la cosa più bella che mio fratello potesse lasciarmi – disse con malinconia – senza di lei oggi non sarei qui.

Ester ascoltava in silenzio, alternando momenti di dispiacere ad altri di profonda commozione.

– Che cosa posso fare per voi? – chiese con curiosità.

Egle abbassò lo sguardo. Poi lo rialzò e guardò la donna negli occhi, a ribadire la sua buona fede.

– Ho motivo di pensare che mia madre abbia lasciato in questa biblioteca qualcosa per me. Può sembrare strano che io mi presenti adesso, dopo tanto tempo. Ma ho trovato recentemente una sua lettera di cui non ero a conoscenza. Avrei bisogno di qualche ora per cercare quello che mia madre ha riposto qui, da qualche parte in questi locali. Purtroppo non posso essere più precisa, non so di cosa si tratti esattamente.

Dopo che aveva ascoltato le parole di Egle, Bianca pensò che non avessero alcuna speranza.

La schiettezza con cui aveva espresso l’imprecisione delle loro informazioni era imbarazzante; nessuno al mondo le avrebbe fatte accedere ai locali della biblioteca sulla base di quei presupposti. Purtroppo non avevano altro e non erano in grado di usare argomentazioni di tipo diverso, sprovviste com’erano di indizi e di ragioni.

Tuttavia qualcosa accadde, e fu fuori da ogni previsione.

Il pensiero di Ester tornò a quella volta di tanti anni prima, dopo che lei e Lidia si erano conosciute sul posto di lavoro. Rivide in un attimo le gonne a quadri, i capelli scomposti, lo sguardo fiero di quella funzionaria poco simpatica che si aggirava per i corridoi come se la biblioteca fosse stata casa sua, abituata a fare quello che voleva. Lei, a quel tempo, era una semplice addetta al prestito, arrivata da pochi mesi e ancora sotto osservazione da parte del Ministero. Veniva da Merano e quell’incarico le serviva per campare figli e genitori, dato che in famiglia lavorava solo lei. 

Le capitò, quel giorno che aveva ancora fisso nella mente, di commettere un errore. Uno sbaglio dovuto forse alla stanchezza o alle preoccupazioni che portava con sé da casa, un abbaglio imperdonabile che avrebbe compromesso la sua conferma al ruolo di bibliotecaria.

Dette in prestito un libro antico, un poema in sanscrito che non poteva uscire dalla sala in cui era conservato né, tantomeno, passare in concessione al pubblico per essere portato via. Il volume, forse oggetto di un furto intenzionale, andò perduto e la biblioteca subì un danno enorme, di cui lei era diretta responsabile.  

Fu in quell’occasione che entrò in gioco Lidia, con inaspettata umanità. Prese su di sé la colpa, dichiarando di aver autorizzato l’atto per errore.

Fu degradata a ruolo di custode, di cui non ebbe a lamentarsi mai.

Quando Ester le chiese perché l’avesse fatto, Lidia rispose con sincerità, rivelando un senso di purezza che rese limpida ogni cosa.

– I tuoi figli hanno bisogno che tu abbia fiducia nel prossimo, perché sono prossimi a te.

Lasciò intendere, così, che conosceva la sua situazione e che l’aveva aiutata per generosità di spirito; sorella senza essere sorella, messaggera di un amore singolare che guariva tutti quelli da salvare.

Proprio quella frase le tornò in mente, tanti anni dopo, mentre aveva davanti agli occhi la figlia di Lidia.

Le parole che aveva custodito erano come un seme, rimasto a lungo sottoterra e improvvisamente venuto all’aria per la sua vocazione a fiorire.

Non volle sapere che cosa fosse scritto nella lettera che Egle aveva rinvenuto, né che cosa la ragazza avrebbe cercato nella biblioteca; seguì l’istinto a ricambiare il bene che aveva ricevuto e aprì la porta alla speranza, donando alla figlia di Lidia la stessa fiducia che Lidia aveva dato ai figli suoi.

– Venite a mezza notte – disse soltanto – copritevi la testa per non farvi riprendere dalla telecamera di sorveglianza e bussate senza suonare il campanello. Io disattiverò l’allarme dall’interno e vi farò passare.  

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