4. L’urlo di Bianca

Alle tredici in punto Bianca uscì dal laboratorio per andare all’ospedale.

Aveva lavorato distrattamente tutta la mattina, col pensiero fisso sulla ragazza che il giorno prima si era gettata nel Canal Grande dopo essersi tolta le scarpe.

Proprio quel particolare l’aveva indotta a pensare che si trattasse di Egle, la sorella di Franz, e adesso voleva parlare con lei. Lo voleva per Franz, che era morto senza riuscire a trovarla, ma anche per se stessa. Sentiva il bisogno di mettere a fuoco una serie di particolari che fin dai primi giorni avevano accompagnato la loro storia, segnali occasionalmente accennati e poi nascosti, avvisaglie inafferrabili come nastri che durante il loro rapporto avevano volteggiato nell’aria senza mai prendere una forma. Adesso quei nastri erano caduti, atterrati scompostamente su un suolo ruvido e insensato, privi di un soffio che li tenesse in vita.

Non rimaneva altro, per Bianca, che l’assillo di sapere; assecondare la necessità di mettere insieme le cose per trovare un filo conduttore e forse, mediante quel filo, provare ancora la sensazione di avere Franz vicino a sé. 

Arrivò all’ospedale all’ora delle visite ed entrò inosservata nel reparto, attraversò il corridoio e si diresse speditamente nella stanza in cui il giorno prima aveva lasciato la ragazza, dopo che lei si era svegliata e la macchina del ritmo cardiaco aveva preso a suonare. 

Trovò la camera vuota e il letto rifatto. Si affacciò nel corridoio e guardò intorno per cercare qualcuno.

– Dov’è la paziente che era qui? – chiese a un’infermiera.

– Ha firmato e se ne è andata.

Bianca si sentì cadere le braccia.

– Sa dove posso trovarla?

– Mi dispiace, non so nulla su di lei. Non ha aperto bocca se non per dire che voleva essere dimessa. Ha aspettato il medico per i documenti, ha preso le sue cose e ha lasciato l’ospedale. Il dottore era contrario, dopo quello che è successo ieri… ma non c’è stato modo di trattenerla, era decisa a uscire.

– Grazie.

Bianca sentì in bocca il gusto amaro della delusione. Aveva provato, in poco meno di ventiquattro ore, la scossa del risveglio, la foga della speranza e la frustrazione dell’occasione mancata.

Uscì dall’ospedale e per qualche minuto rimase a guardare l’acqua del canale, indecisa sul da farsi. Dove poteva essere andata? Di sicuro non era lontana. Doveva assolutamente trovarla, Egle era l’unica che potesse far luce sul passato di Franz. 

Improvvisamente ebbe un’intuizione, il lampo di un ricordo preciso si fece largo tra i suoi pensieri. Le venne in mente quella sera in cui lei e Franz erano stati fuori fino a tardi e poi si erano ubriacati. 

Era una delle prime volte che uscivano, dopo l’appuntamento del gelato.

Desiderosi di conoscersi meglio, avevano girato per il centro abbracciati bevendo tutto il tempo dalla stessa bottiglia di vino per assaporare all’unisono quella prima, totalizzante sensazione di complicità.

L’estate era vicina e le notti cominciavano a essere luoghi accoglienti in cui passeggiare inosservati.

Quando arrivò l’alba erano nella zona più orientale della città, verso i giardini della Biennale. Lì successe qualcosa, l’armonia che li aveva accompagnati fino a quel momento improvvisamente si spezzò e Franz lasciò trapelare, per la prima volta, le venature del suo turbamento. 

– Questo per me è un posto speciale – disse guardando verso il mare – qui ho visto per l’ultima volta mia sorella.

Il suo umore era cambiato. La voce gli tremava mentre scompostamente alternava toni alti e bassi per l’effetto dell’alcol. 

– Poi che è successo? 

– Poi se ne è andata, è scomparsa nel nulla senza lasciare traccia di sé.

Bianca faceva fatica a tener dietro al discorso, ma lui continuò a raccontare il suo dolore mescolando disordinatamente avvenimenti accaduti e deduzioni personali, tenuti insieme solo dal bisogno di aprirsi con qualcuno e dal potere liberatorio del vino. 

– Come mai è andata via? Ci sarà stato un motivo …

– Il motivo sono io, è mia la colpa. Se solo potessi tornare indietro … se potessi dirle che aveva ragione, che poteva fidarsi di me… invece niente. Lei si è allontanata e io sono rimasto ancora più solo, senza nessuno al mondo. 

Franz andava avanti e indietro sulla banchina, mostrando evidenti segni di agitazione. Alzava le braccia, poi le abbassava e portava le mani sulla testa con gesti di autocommiserazione, mentre oscillava a destra e a sinistra senza trovare un equilibrio. Bianca lo guardava e cercava di capire il senso di quelle parole sconnesse. Vedeva tutto girare e aveva i riflessi allentati ma non voleva fermarlo. Pur nello stordimento, si rendeva conto che Franz aveva bisogno di essere ascoltato.

– Voglio una vita come tutti; basta segreti, basta! – riprese lui – Voglio vedere mia sorella, consolarla quando piange come facevamo da bambini, io e lei siamo stati sempre insieme da quando i nostri genitori sono morti.

Poi fece una pausa e con il tono da ubriaco aggiunse:

– Quella era la nostra vita, la nostra! E invece io ho tradito la sua fiducia, ho permesso che si allontanasse da me. 

Bianca gli afferrò le mani, con l’istintivo desiderio di sciogliere la sua pena. 

– Forse tornerà, abbi fiducia.

– Dici così perché non la conosci. È tremendamente cocciuta, inflessibile nelle sue scelte bizzarre e incapace di giungere a compromessi. 

– Perché dici che fa scelte bizzarre?

– Egle è una ragazza strana. Assolutamente non convenzionale, eccentrica, imprevedibile. Non è come me o te…lei ha un suo modo di vedere le cose, una logica diversa dalla nostra. 

– Per esempio?

– Per esempio dice di connettersi con il mondo mediante i piedi perché sente le vibrazioni del terreno. È convinta che le suole delle scarpe addormentino il plantare perché attutiscono l’energia della superficie. 

– Forse ha ragione.

Franz colse l’ironia di quell’affermazione e si lasciò andare a una risata liberatoria.

– Quant’è che non la vedi? – chiese Bianca.

– Quattro anni. Eravamo proprio qui l’ultima volta. Volevamo respirare l’odore del mare aperto, poi abbiamo litigato e lei se ne è andata. Da allora torno in questo posto di tanto in tanto, soprattutto di notte quando non riesco a dormire. E sai che faccio? Grido il suo nome sperando che il vento glielo porti, perché lo possa sentire. 

Franz si mise le mani intorno alla bocca e urlò, più forte che poteva, il nome di Egle. 

Fu proprio quell’urlo che affiorò nella mente di Bianca, quel giorno di gennaio di un anno e mezzo dopo. Da quella sera avevano parlato di Egle tante volte, ma lui non le aveva mai voluto raccontare che cosa fosse successo esattamente tra lui e sua sorella e perché lei avesse deciso di scomparire. 

– Te lo dirò presto, promesso – diceva sempre. Finché tutto era crollato e sapere era diventato un verbo senza significato.

Adesso qualcosa era diverso, Bianca sentiva che poteva finalmente dare una risposta alle sue domande e che Egle era vicina. 

Si avviò velocemente verso i giardini della Biennale, là dove il mare diventava aperto e le speranze trovavano un rifugio per potersi conservare. Per la seconda volta in due giorni, correva concitata con la foga nel cuore. Forse era un’idea insensata, un tentativo inutile, una follia; ma dentro di sé Bianca non aveva dubbi, sapeva che doveva andare lì.

Arrivò nel punto esatto in cui era stata con Franz, quella notte di tanto tempo prima.

Lasciò cadere la borsa e fece un respiro profondo. Poi mise le mani intorno alla bocca e urlò il nome di Egle verso il mare. Incurante dei passanti e dei turisti, dette voce al suo bisogno di capire.

Gridò una, due, tre volte. Con tutto il fiato che aveva.

Quando ebbe finito, lentamente si girò.

Egle era lì, a pochi metri da lei.

Rimasero qualche secondo a fissarsi l’una con l’altra, senza dire una parola.

Bianca la osservò avanzare, incredula e frastornata. Quella ragazza filiforme era tutto ciò che le rimaneva di Franz.

– Come fai a sapere chi sono? – chiese Egle quando fu vicina.

– Franz mi ha parlato di te.

– Non sono sicura di potermi fidare.

Egle parlava confusamente, in modo disarticolato. Sembrava assente e proferiva parole sconcatenate, legate solo dall’emotività.

Bianca fu indecisa su come intervenire, poi ebbe un’intuizione.

– Che cosa ti suggeriscono i piedi? – chiese di getto.

Rimasero ferme, in silenzio. Egle la guardò dritta negli occhi, facendo tesoro di quella domanda, poi successe qualcosa. Cominciò a muovere gli arti, prima piano e poi sempre più forte, sotto l’effetto di un impulso ripetuto. 

Si tolse le scarpe e abbassò lo sguardo, come a cercare un raccoglimento interiore. Fu pervasa da un’onda di calore e da una scossa che la fece flettere avanti e indietro come la corda di un arco intorno al suo equilibrio. Le gambe si tesero e il bacino ebbe un contraccolpo che agitò i polsi e arrivò fino alle spalle.   

Bianca ebbe la netta sensazione che i suoi capelli diventassero progressivamente più rossi, fino ad apparire quasi incandescenti.

Sembravano indizi di conclamata follia, se non fosse che l’atmosfera era cambiata e che quel corpo trasformava l’energia. Dei gesti inconsueti di dissociazione, modi forse indiscreti per entrare in connessione.

Poi la tensione si allentò, i movimenti diventarono composti e i battiti si fecero regolari.

Qualche secondo dopo tutto riprese ed Egle tornò a guardarla normalmente. 

– Posso fidarmi – disse soltanto.

Bianca non si scompose per quanto aveva visto; quella trasformazione le parve naturale come l’alba, straordinaria come il momento del parto, autentica come il ciclo delle stagioni. Fece un sorriso e la abbracciò. Fu un abbraccio salvifico per entrambe, l’uscita da un tunnel lungo e disabitato, l’esplosione del ritorno alla vita.

Ebbe la sensazione netta che Franz fosse lì, insieme a loro, e lo sentì sorridere. 

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