6. Il canto delle anguane

La notte prima dell’incidente Franz non riuscì a dormire. 

Da qualche ora si agitava nel letto, madido di sudore, mentre la luce fioca dei lampioni passava dalla finestra spalancata e si diffondeva nella stanza.

Il caldo di luglio risvegliava in lui pensieri angoscianti e lo teneva stretto nei problemi di sempre, su cui aveva riflettuto tante volte senza mai giungere a una soluzione.

Afferrò il cellulare sul comodino per guardare l’ora e vide un messaggio di Andrea, il suo amico di arrampicata.

– Vai a letto presto – diceva –sono da te alle 6,30 precise, ti faccio uno squillo e scendi. La grande montagna ci aspetta.

Erano le due e ancora non aveva chiuso occhio. 

Si alzò, prese una birra dal frigo e andò a berla sul divano. Davanti a lui, sul cavalletto, c’era la tela del suo ultimo dipinto, appena completato. Il buio rapiva i colori e lui la guardava in penombra, insoddisfatto.

Il compiacimento era per Franz un sentimento quasi sconosciuto, una lusinga che gli era stata preclusa da quando i suoi genitori erano morti e la sua sorte era diventata un susseguirsi di eventi obbligati, svincolati dalla sua volontà.

Fin da bambino si era occupato di sua sorella con l’amore riservato alle persone fragili, rimandando a un futuro imprecisato la cura di sé.

Da subito si era esonerato dal diritto di imbastire un progetto, di sviluppare un’intenzione, di prendere un’iniziativa che potesse durare nel tempo; la sua vita si era plasmata sull’accettazione di una dimensione che non aveva pianificato, capace tuttavia di condizionarlo per intero. 

A quella situazione si era aggiunta una circostanza imprevedibile che aveva ulteriormente appesantito la sua percezione della realtà.

Qualche anno prima aveva ricevuto l’eredità pesante di un segreto da custodire e il senso di chiusura in cui si era venuto a trovare aveva prevalso su ogni sua scelta, togliendogli di fatto la libertà. Avrebbe potuto non accettare le condizioni, liberarsi dall’onere del silenzio, ma l’obbligo che sentiva aveva sempre predominato sul resto rendendolo distaccato e indifferente alle sue stesse decisioni. Come se non riguardassero lui o, peggio, come se lui non governasse loro. 

Adesso le cose erano cambiate, la presenza di Bianca dava forza e apriva alla possibilità di un cambiamento, ma ancora non riusciva a fare il passo decisivo. L’incertezza di una scelta in solitudine indeboliva il suo coraggio; l’abitudine a rinunciare, d’altro canto, alimentava il timore di perdere anche lei. Franz esitava e rimaneva così, a metà strada tra due fuochi, con la sensazione di bruciarsi senza averli toccati.  

Guardò di nuovo l’orologio, si mise addosso i vestiti del giorno prima e si infilò le scarpe, senza allacciarle. Poi prese le chiavi e uscì tirandosi dietro la porta. Aveva bisogno di cercare Egle, di creare un contatto con lei. E anche se quel contatto era fittizio, una voce mischiata col vento, lui languiva al conforto di gridare il suo nome. 

Camminò per mezz’ora, passò la riva dei Sette Martiri e arrivò, come d’abitudine, vicino ai Giardini della Biennale.  

Stette per un po’ a guardare le increspature dell’acqua, piccole onde che sembravano arrendersi alla calma piatta di quell’estate torrida. Poi mise le mani intorno alla bocca e lanciò il suo urlo disperato, rimettendo alla notte la facoltà di averne cura.

Si sentiva stanco, spossato da quella situazione. Provò un profondo senso di ingiustizia: non aveva scelto lui di vivere come il custode di un mistero, non era sua la decisione di conservarlo a prezzo della solitudine. Ripensò a Bianca e alla sua forza sincera. Da quando era arrivata nella sua vita, l’aria era cambiata. Il suo sorriso ricco di possibilità l’aveva accarezzato con dolcezza, il suo senso di apertura gli aveva fatto assaporare l’idea della libertà. Non poteva permettersi di perderla né di ferirla in alcun modo; lei era la sua occasione di riscatto.

Doveva cominciare da lì, dal progetto di una vita insieme. Parlarle e raccontarle ogni cosa, liberarsi del suo peso e con lei decidere cosa fare. A costo di contravvenire alla sua promessa di silenzio, a costo di disperdere un segreto tramandato da secoli: doveva liberarsi di tutto e ripartire da zero.

Accelerò il passo, spinto da una speranza sconosciuta. Le cose intorno gli parvero insolitamente armoniose, il cielo accogliente e la notte, per la prima volta, incredibilmente sua.

Quando arrivò a casa erano le quattro.

Si sfilò le scarpe e si buttò sul letto; due ore dopo suonò la sveglia.  

Fece una doccia fredda per svegliarsi e si vestì per la arrampicata; poi sentì lo squillo e scese.

– Hai l’aria riposata – scherzò Andrea.

– Dormo durante il viaggio.

Così partirono, andarono a Mestre in treno e lì presero la macchina per arrivare alla Valle del Rameston.  

Erano diretti alla Carega del Diavolo, una falesia nota per la sua forma somigliante a un enorme seduta di roccia, un tempo usata come altare pagano.   

Era un luogo abitato da anguane, creature mitologiche simili a ninfe protettrici dell’acqua e dei boschi. Metà donne e metà rettili, talvolta con i piedi d’anatra o di capra, queste strane figure emettevano delle grida che si diffondevano tra la vegetazione.

Franz e Andrea si divertivano a interpretare i suoni della foresta attribuendo insoliti significati a quell’insieme di ululi striduli che si mescolavano in un’unica grande armonia, la voce del bosco. 

– Senti come urlano – disse Andrea mentre si avvicinavano alla roccia da scalare. 

– Ci stanno aspettando – commentò Franz – hai sentito anche tu i nostri nomi?

– Eccome! Il tuo due volte. Scherzò Andrea.

Percorsero il sentiero a piedi e giunsero alla falesia. 

Prima di cominciare mangiarono un pezzo di cioccolato fondente e bevvero qualche sorso d’acqua. Poi, come d’abitudine, fecero gli esercizi di riscaldamento. Fu in quel momento che Franz prese di nuovo la parola.

– Oggi è l’ultima volta che vengo, non mi imbraco – disse serio.

– Non fare il cretino, sai che è pericoloso.

– Voglio salutare la montagna da uomo libero, proprio quello che sto per diventare.

– Cosa vuoi dire? 

– Nulla, solo che sono pronto per una nuova vita. 

– Guarda che se sei innamorato la libertà la perdi, mica la guadagni – disse Andrea sarcastico.

– Forse, ma mi piace pensarle che sarò migliore. Andiamo?

– Sei sicuro Franz? – rimarcò Andrea.

– Sicurissimo. Questa è la mia ultima arrampicata e me la voglio godere.  

– Come vuoi.  

Cominciarono a salire, relativamente vicini. Franz si attaccava con le mani alla roccia, mentre un vento leggero gli asciugava il sudore dalla fronte. Con perizia cercava l’equilibrio e caricava l’appoggio, misurava l’ampiezza dei passi per calibrare la velocità e dosare la durata dello sforzo. Andrea ne osservava le mosse, guardava i suoi muscoli che si allungavano e si flettevano per dare lo slancio in verticale. 

Improvvisamene notò quello che non avrebbe mai voluto vedere. Uno dei lacci delle scarpe di Franz era allentato e il filo, troppo lungo, si era incastrato in una asperità. 

– Attento Franz, hai il laccio impigliato! – gli urlò – Carica l’altro piede e fai la retroversione del bacino.

Era necessario che Franz rimanesse calmo, doveva mantenere la concentrazione e spostare il baricentro del suo corpo per non perdere la presa.   

Ma Franz, quella notte, non aveva dormito e la sua attenzione non fu capace di tanta fermezza. 

Fu un concatenarsi di eventi, un vortice di errori che la montagna non seppe perdonare.

Si avvicinò eccessivamente alla parete, poggiò il piede sulla parte esterna e alzò troppo il tallone, perdendo l’equilibrio. Le braccia gli cedettero e mollò l’appiglio. In un attimo si sentì precipitare.

Percepì l’urlo disperato di Andrea, poi vide tutto muoversi, come un nastro che si avvolgeva troppo in fretta.

Atterrò di schianto e fu trafitto da un dolore lancinante. Alle gambe, al torace, alla testa: non riusciva a muoversi e si sentiva andare. 

Vide un bagliore lontano e poi una luce, sempre più intensa, che progressivamente riempiva ogni cosa. 

Distinse urla e voci nelle vicinanze; quella di Andrea, incontrollata, si mescolava a dei timbri femminili: erano le anguane che venivano a prenderlo.

Avvertì un fremito all’orecchio, il calore di un respiro e poi il suono dolce di un fruscio. Comprese chiaramente le parole sussurrate:

– Egle è tornata.

Fece in tempo a sorridere, poi si sentì svanire.

Il suo ultimo pensiero fu per Bianca: “perdonami, se non ti ho cercato prima”.

Fu facile come entrare nella bottega di Alvise, quella volta che l’aveva seguita.

Invece entrò dall’altra parte della storia, e non sentì più niente.

Potrebbero interessarti anche...