1. L’interno dei guanti
20 marzo 2026
Aldo allungò il braccio e spense la sveglia, un’ora prima di sentirla suonare. Tornò per qualche istante sotto le coperte con lo sguardo sulle cose intorno; lo straniero era tornato in sogno e lui l’aveva appena visto andare via.
Fuori era ancora buio, le luci dei lampioni filtravano dalle fessure dell’avvolgibile e portavano nella stanza un’incertezza cupa, la stessa che da qualche tempo lo stordiva dall’interno. Da molti anni era abituato a svegliarsi presto per via dei turni all’ospedale; negli ultimi mesi aveva cominciato a soffrire d’insonnia e risolveva il suo bisogno di riposo con delle pillole rosa che, ormai, buttava giù senza riflettere.
Si alzò e andò verso il bagno; nello specchio, l’immagine restituì i segni di un disagio evidente, impossibile da celare. Il suo viso, che un tempo aveva lineamenti gentili, appariva adesso imbolsito e trascurato; le occhiaie infossavano le pupille e i capelli ispidi mettevano in risalto la fronte tirata, resa ruvida dalla mancanza di cura e dalla punta tagliente dei suoi stessi pensieri.
Il giorno dell’esame era arrivato e in cuor suo fuggiva dall’idea di affrontarlo; con grande ostinazione aveva deciso di non ritirarsi dalla procedura di selezione e adesso doveva dimostrare che sarebbe riuscito a sostenere quella prova, nonostante i dolori allo stomaco e le gambe che sentiva tremare.
– Che faccia da stronzo – mugugnò.
Era lì, fermo in piedi, e doveva prepararsi per andare.
Quasi tutto, dentro di lui, opponeva resistenza. Tutto tranne quella voce insidiosa che forse un tempo apparteneva a sua madre o a suo nonno o alle pareti della casa al mare, che quando era piccolo liberavano l’angoscia tra i mattoni.
Il colloquio per diventare Direttore di Struttura Complessa era la miccia di una fiamma che si propagava lungo lo scheletro delle sue paure e lo lasciava carbonizzato.
Un tempo si diceva Primario e il significato era chiaro; adesso ogni parola appariva impersonale e distaccata, incastrata in una rete di contenuti senza inizio né fine. Per lui però cambiava poco; sapeva da tempo che prima o poi avrebbe dovuto misurarsi con quella prova e adesso non poteva più tirarsi indietro.
L’affanno era cominciato otto mesi prima, quando aveva letto della gara di selezione sul sito istituzionale dell’Azienda Sanitaria. Subito la sua mente aveva iniziato a smaniare, tirata dal desiderio di affermazione e dal terrore di ricadere nella trappola del disturbo con cui aveva combattuto nella prima fase del suo percorso, quando aveva deciso di diventare medico.
Ricordava perfettamente quello stato di malessere, la sensazione di nero che scorreva nelle vene e il peso della parola depressione, pronunciata dallo psichiatra con indifferenza. In quella diagnosi risiedeva il fallimento della sua immagine pubblica, il crollo delle aspettative della sua famiglia e la rovina dei suoi progetti futuri.
Per qualche mese, allora, era rimasto stordito e isolato, bloccato dal senso di passività e dalla debolezza indotta dalla cura per guarire. Un profondo senso di estraniamento aveva azzerato la sua capacità di decidere e il tempo si era dilatato fino a diventare una scatola vuota: la sua vita, in quel periodo, era una linea appiattita dal peso dell’aria.
Poi le cose si erano aggiustate e lentamente era tornato alla normalità. Aveva completato gli studi ed era entrato come ortopedico al S. Orsola, l’ospedale della sua città. Quindici anni dopo si trovava a vivere la stessa sofferenza e l’idea di ritrovarsi in quella condizione lo stringeva fino a farlo bloccare.
Nessuno, adesso, poteva immaginare il suo disagio; da tempo occupava una posizione prestigiosa e il suo nome veniva spesso associato all’idea del successo. Agli occhi di tutti, Aldo Balzani era uno scapolo sportivo, ricco e molto corteggiato. Lui solo sapeva che quell’esperienza aveva lasciato un solco, un malessere che si concretizzava in un’ombra pervadente, lo spettro della vulnerabilità.
Si sciacquò il viso con l’acqua fredda, fece la doccia controvoglia e indossò i vestiti che aveva sulla sedia, poi accese lo smartphone e infilò qualche fascicolo nella borsa. Aveva prenotato un taxi per le 6:00 e mancavano ancora 40 minuti.
Gli passò per la mente l’idea di disdirlo, di rispogliarsi e aspettare l’alba come un giorno qualunque ma ricacciò quella possibilità, seppur liberatoria. Ormai aveva deciso e doveva arrivare in fondo, aveva bisogno di provare a sé stesso che sarebbe riuscito a comportarsi come gli altri candidati, con la freddezza e la razionalità richieste dalla sua professione.
Dette una rassettata ai capelli, si infilò la giacca e aspettò sulla poltrona, già pronto per uscire.
Nella sua mente, distratta, il ticchettio dell’orologio e la lancetta che avanzava a scatti.
Tic, toc. Poi ancora tic. Fino a riempire il tempo.
Alle 6 precise uscì e chiuse la porta con una mandata, scese le scale e andò per strada; il taxi era arrivato e lo stava aspettando.
-Buon giorno – disse entrando nella vettura.
-Buon giorno. Dove la porto?
-Al Marconi.
-Gradisce un po’ di musica?
Aldo fu sollevato da quella domanda. Il suono delle note avrebbe coperto l’imbarazzo del suo silenzio e forse anche quello dei suoi pensieri più neri.
-Grazie – disse con voce strozzata.
Il taxi partì e lui si sentì portare via. Dal finestrino vide scorrere il viale, le macchine ancora parcheggiate e l’edicola, aperta per le consegne. Ai lati, gli alberi ancora spogli indicavano la strada per la piazza, avvolta nella nebbia poco più in là.
Mise la mano nella tasca per controllare di aver preso i documenti. Estrasse la patente e lesse le sue generalità.
Aldo
Balzani
01/05/1984
Bologna (BO)
Lo ripeté lentamente dentro di sé.
-Che nome del cazzo, Aldo – gli venne di pensare.
Forse la sua sventura era cominciata lì, da quell’appellativo antico e privo di spessore. Quattro lettere senza carattere, così discrete da risultare inosservate, troppo equilibrate per produrre un suono deciso. Se si fosse chiamato Rocco, come il compagno della sua psicanalista, tutto sarebbe iniziato in un altro modo. Quello, sì, era un nome incisivo; un esubero di consonanti dure che servivano da lasciapassare e fornivano l’indizio di una caparbietà ribelle, incurante dei giudizi altrui. Ma Rocco era un nome popolare, sua madre non l’avrebbe mai scelto.
Per un attimo, andò con la mente allo studio della dottoressa Betti, dove tutti i giovedì si recava per cinquanta minuti di analisi. Era un bilocale ampio, ricavato nell’appartamento di residenza, con l’accesso indipendente dallo stesso pianerottolo. Aveva cominciato ad andarci qualche mese prima per il tremolio alle mani e per quel sogno ricorrente che non riusciva a decifrare. Un viso sconosciuto lo guardava dall’alto mentre lui era sdraiato a terra in un posto pieno di gente. Una stazione? Oppure l’interno di un mercato coperto? Non riusciva a vedere. L’uomo parlava, muoveva la bocca con determinazione senza che lui potesse distinguere le parole. Qualche suono nella confusione, un insieme di sillabe annebbiate; poi, lentamente, la scoperta che quei termini appartenevano a una lingua oscura, mai sentita prima.
La ripetizione di quel sogno, così frequente e così destabilizzante, l’aveva indotto a pensare che ci fosse una chiave di lettura enigmatica e precisa che lui non riusciva a decifrare. Un monito, forse, o la rivelazione di una realtà che si espandeva altrove, dove a lui non era dato di entrare. Nel tempo, il viso dello straniero era diventato un’ossessione; tutte le notti, a qualsiasi ora andasse a letto, si addormentava con l’inquietudine di incontrarlo.
L’idea di rivolgersi a un professionista della mente era arrivata al lavoro, un giorno come gli altri, durante la visita a un paziente che qualche mese prima era stato coinvolto in un incidente stradale e adesso doveva fare un intervento di protesi al ginocchio.
-Sa, dottore – aveva cominciato l’uomo – da quando è successa la disgrazia mi sento fragile.
Aldo, piegato sulla gamba, alzò gli occhi in segno di ascolto.
-Non mi riferisco alla debolezza degli arti, quella è normale. Parlo di un’insicurezza che ha messo in discussione la spontaneità di tutte le mie scelte, anche le più piccole. L’idea dell’imprevisto è entrata di getto nel mio modo di essere, portando paura. Di notte rivivo il momento dell’impatto e mi trovo a ripetere lo stesso shock. Quando mi sveglio sono sudato e il cuore mi batte all’impazzata. Un amico mi ha consigliato di rivolgermi a un esperto e mi ha passato il nome della sua psicanalista. Che dice, devo andarci? Non sono abituato a parlare di certe cose con qualcuno, a maggior ragione se si tratta di un estraneo. Lei che cosa mi consiglia? Sa… alla mia età non è facile cambiare abitudini; insomma… sì, ho qualche perplessità.
Poi si fermò e cercò nella sua memoria altre informazioni che potessero aiutare il medico a fornire un parere oculato.
-Si chiama Betti, dottoressa Chiara Betti, la conosce?
Aldo si alzò e si appoggiò al bordo del letto.
-Non la conosco, mi dispiace. Ma… perché no, un tentativo lo farei. Non bisogna avere certi preconcetti, in fin dei conti il cervello è un organo come tutti gli altri, se si inceppa va curato.
Disse quella frase mentendo, con l’unico scopo di assecondare il bisogno dell’uomo di essere ascoltato. Aveva brutti ricordi con gli psicanalisti; dai tempi del suo primo tracollo emotivo conservava un’irrisolta repulsione verso tutta la categoria. Si sarebbe fatto aprire ogni parte del corpo prima di tornare a farsi guardare nella mente da quegli esperti dell’ascolto a pagamento. Se fosse stato sincero, avrebbe dichiarato con fermezza di non riporre alcuna fiducia in quel genere di sedute.
Tuttavia, Aldo rimase in posizione neutra, come era abituato a fare in circostanze simili. Fece un’espressione vagamente comprensiva e si barcamenò con destrezza sul filo del discorso mentre il paziente, incerto, valutava l’opportunità di andare.
-Ci provi – concluse – poi mi faccia sapere come è andata.
Finì la visita e uscì dalla stanza, convinto di aver fatto la cosa migliore. Il distacco compiacente era un modo comprovato per evitare ogni tipo di grana; negli anni aveva imparato ad assecondare l’interlocutore senza esporsi, rimanendo in uno stato di limbo professionale che lo tutelava da qualsiasi conseguenza. Del resto era un ortopedico, il suo compito si esauriva nel rapporto con le ossa. E le ossa, grazie a Dio, non potevano parlare.
Ma quella sera, inaspettatamente, qualcosa cambiò. Accadde come accadono certi eventi che hanno una forza imprevedibile; non perché siano travolgenti o clamorosi, anzi, spesso sono delicati. Sono avvenimenti che arrivano per caso, messaggeri della Natura, come un uccellino che batte il becco sulla nostra finestra per farsi notare. Lo vediamo, ma non gli prestiamo attenzione. Lui insiste, torna il giorno dopo e quello dopo ancora, finché ci decidiamo a guardarlo meglio. Solo allora, dopo che ci siamo curati della sua presenza, se ne va, come se avesse compiuto la sua missione.
Che cosa avrà voluto dirci? – Ci chiediamo.
Non di rado, la nostra mente trova una spiegazione; un significato che, grazie a quell’evento e senza alcuna connessione logica, ci appare assurdamente verosimile. È il senso scollegato di una verità; un argomento senza motivi per convincerci, che in qualche modo ci ha convinti già.
Queste situazioni ci colgono così, sorpresi e disarmati. Il loro potere è racchiuso nel nostro istinto a cogliere i segnali irrazionali, nell’impulso ad ascoltare, nell’accedere a canali incontrollati.
Questo è quanto successe ad Aldo Balzani la sera della visita all’uomo che doveva essere operato.
Tornò a casa e mise in tavola la cena appena comprata in rosticceria. Si sedette e accese la tv, con il cartoccio ancora chiuso davanti al piatto. Lo aprì e avvicinò il naso per sentirne il profumo. Stava per cominciare a mangiare quando la sua attenzione fu attratta da qualcosa. Sullo schermo, in primo piano, il giornalista stava intervistando una donna sulla quarantina. Sotto di lei, la scritta:
Dott.ssa Chiara Betti,
Istituto di psicotraumatologia Vincere Medusa
Chiara Betti, Chiara Betti… dove aveva sentito quel nome? D’un tratto sussultò: era la stessa dottoressa nominata dal paziente all’ospedale.
Quella coincidenza, così imprevedibile e netta, spostò il sassolino dalla sorgente delle sue convinzioni. Si intromise come una mano nella zona nascosta dei suoi convincimenti e li rovesciò come guanti, invertendo la destra e la sinistra dei suoi punti cardinali.
Gli parve che il nome della dottoressa, sentito due volte in poche ore, fosse un segno da seguire, l’indizio di un mondo ragionevolmente inesistente che era apparso tutto d’un tratto come una rivelazione. Avvertì la possibilità, e poi l’urgenza, di incontrarla e di parlarle del suo sogno; si trovò improvvisamente aperto all’idea che potesse essere in grado di interpretarlo. E poi c’era quel tremolio alle mani che ultimamente compariva prima degli interventi chirurgici e che rischiava di mettere a rischio la sua professione; una condizione senza riscontro clinico che era stata classificata come un disturbo dell’ansia, da curare col riposo e con le pillole per l’insonnia. Le avrebbe parlato anche di quello.
Solo poco prima, l’eventualità di ricorrere a un aiuto esterno sarebbe sembrata assurda; adesso, per via di quell’indizio inaspettato, appariva persuasiva e sorprendentemente verosimile.
Prese la pillola e andò a letto. Dormì un po’ più del solito, con meno interruzioni.
La mattina dopo chiamò, con lo strascico di un vago ottimismo, l’istituto di psicotraumatologia.
-La dottoressa riceve da noi il lunedì e il venerdì – risposero dall’altra parte – altrimenti può prendere un appuntamento presso il suo studio privato, in via Santo Stefano.
Si fece dare il numero e riagganciò, deciso a proseguire. L’immagine di Santo Stefano avvalorò le sue sensazioni: in quella parte della città aveva passato i momenti più belli dell’infanzia, a casa della nonna paterna. Digitò le cifre sul tastierino. Una voce maschile dette seguito alla sua richiesta.
-C’è un posto libero giovedì alle 17.
-Perfetto – pensò; giovedì aveva il turno di mattina. – Lo prendo.
A telefonata conclusa, fu colto da una leggera eccitazione. Il solo fatto di aver preso quella decisione lo aveva posto in una dimensione nuova in cui, quasi senza riconoscersi, si trovava disposto a percorrere daccapo una strada accantonata.
I giorni a seguire furono un susseguirsi di eventi normali: visite, operazioni e cartocci della rosticceria. Da qualche tempo aveva smesso di andare al circolo del tennis per paura che le sue mani cominciassero a tremare in presenza di altri. Aveva impiegato quel tempo a studiare per il colloquio della selezione ma il fremito era aumentato e lo straniero non aveva cessato di presentarsi in sogno, lasciando ogni volta lo stesso disagio. Mercoledì sera, prima di andare a dormire, fu colto dall’inquietudine. Chissà come sarebbe andata l’indomani e quale sarebbe stata la sua impressione della dottoressa. Avrebbe fatto delle domande oppure l’avrebbe lasciato libero di spaziare su argomenti generici, senza forzarlo a rivelare ogni parte di sé? Cominciò ad avere dei dubbi. Si era lasciato trasportare da una spinta del tutto irrazionale, assecondando la suggestione in un disperato tentativo di salvezza. Come avrebbe giudicato quel cambio improvviso di atteggiamento, se l’avesse visto compiere da qualcun altro? Un comportamento leggero, forse; privo di quel fondamento scientifico che ogni medico avrebbe dovuto esigere da sé stesso, come causa e giustificazione.
L’impazienza, dentro di lui, si mescolava alla paura del fallimento.
Mancava ancora una notte e non poteva fare altro che aspettare; calmarsi, se possibile, e lasciare che passassero le ore. Infilò il pigiama, prese la pillola per l’insonnia e si mise a letto. Poi spense l’abatjour e chiuse gli occhi.
Tic, toc. Tic. Il suono riempì il tempo fino a farlo scivolare nel sonno.
Poco dopo, puntuale come l’orologio della sala operatoria, si vide sdraiato in un luogo pieno di gente. Una stazione, forse, o l’interno di un mercato coperto.
Un viso comparve dal nulla: lo straniero si chinò su di lui e cominciò a parlare.



