4. Rocco, onda e particella
Il giorno in cui la mente di Rocco Zanieri si inceppò, aveva sette anni.
Era un mercoledì di fine marzo quando un tragico avvenimento mandò in tilt il suo sistema di controllo lasciandolo disassortito di sé. Prima di quell’episodio, era un bambino dalle aspettative promettenti, figlio dell’imprenditore Adelmo Zanieri e di Katarina Fornander, una modella svedese che all’inizio degli anni Settanta aveva lasciato l’ambiente della Fashion Industry per diventare testimonial dell’azienda di famiglia a tempo indeterminato. Vivevano in una villa a Colli Castiglione, assistiti da un considerevole numero di servitori che si estendeva secondo le entrate dell’impresa e i capricci della signora Katarina. Rocco era dunque un ragazzino ricco e spensierato fino a quando la sua posizione privilegiata mutò l’ordine delle cose e da motivo di fortuna divenne causa di tragedia.
La mattina in cui tutto successe, si era svegliato prima del solito; andava in gita con la scuola a Monteveglio e doveva arrivare presto per prendere il pullman. Si preparò di corsa, bevve il succo di frutta lasciato in cucina e arrivò nel salone. Sua madre, in vestaglia, lo attendeva di spalle.
-Sono pronti i miei panini?
Katarina prese il fagotto sul tavolo.
-Eccoli qua. Maria li ha preparati stamattina presto.
-Le hai detto di metterci le patatine fritte?
-Assolutamente no. Sai che non fanno bene…
-Ma mamma, dobbiamo fare la gara… i panini sani non vincono mai!
-Non insistere. – concluse mentre gli rassettava i capelli – I sandwich sono pronti e Silvio ti aspetta per andare.
-No, no e no! Avevo detto a tutti che avrei portato una sorpresa, così mi prenderanno in giro… anche questa volta.
-Smettila Rocco. Incaponirsi non è educato.
-Vado senza pranzo. Anzi, lo butto via all’angolo della strada, prima di arrivare. E poi dico che non me l’hai preparato.
L’ espressione di Katarina si fece rigida e irritata. La sua voce divenne dura e l’accento svedese più pronunciato.
-Sai cosa succede ai bambini disubbidienti, vero? Arriva il Kelpie e li porta via.
L’immagine del Kelpie ebbe il potere di arrestare la sua protesta. L’orribile cavallo d’acqua era il metodo di sua madre per costringerlo a rigare diritto; le storie che aveva sentito erano terribili e spaventose. D’altro canto, però, la gara di schifezze era importante; aveva preannunciato una sorpresa e non poteva, adesso, presentarsi con un panino vegetariano!
Riprese a controbattere con gli strumenti di cui disponeva; pochi e ingenui, come è facile immaginare per un bambino della sua età.
-Chi glielo dice al Kelpie? Non può mica sapere i panini di tutti.
-Io, glielo dico io.
Rocco rimase qualche secondo in silenzio, poi concluse rassegnato.
-Va bene, li prendo.
Afferrò, deluso, il cartoccio e uscì verso il piazzale. Silvio, in divisa, lo aspettava per partire.
-Buon giorno, giovanotto. Sei pronto per l’avventura?
-Abbastanza.
-Su, su… andiamo. Il pullman starà per arrivare.
Aprì lo sportello posteriore e lo fece entrare, poi salì e mise in moto.
Attraversarono le colline bolognesi e giunsero alle mura. Il traffico della mattina era vivace, la città si stava avviando al lavoro.
Erano quasi arrivati a scuola quando Rocco riconobbe il suo amico Leo nella macchina accanto. Si sbracciava per farsi vedere, batteva sul vetro e parlava di là dal finestrino. Quando furono abbastanza vicini, Leo sollevò il cartoccio del pranzo e lo mostrò con gagliardia. “Non hai speranza, vinco io”.
Rocco pensò al suo panino. Già se lo immaginava, ripieno di insalata e pomodoro… la peggior lagnanza di tutti i panini. Una tristezza di sapore non solo a Bologna, ma nel mondo! Sua mamma aveva portato le regole dei panini dalla Svezia; lui c’era stato in Svezia: era troppo lontana per importare le leggi sui panini! La dieta sana era la più orribile, irritevole e schifibonda che avesse mai conosciuto.
Chissà che cosa c’era nel fagotto di Leo. L’ultima volta aveva i Nachos col Ketchup, già mescolati e ben appiccicati al sacchetto: sublimi! Non c’era da meravigliarsi che avesse vinto all’unanimità.
Pensava a tutte queste cose con un certo senso di invidia. D’un tratto ebbe un’intuizione, si spostò sul sedile e si accertò che Silvio non lo vedesse dallo specchietto. Prese il pacchetto dallo zaino e con mossa repentina lo infilò sotto il sedile davanti.
Quando arrivarono a scuola, scese con disinvoltura, salutò Silvio e raggiunse i compagni sul pullman. La maestra, all’entrata, spuntava i nomi dalla lista dei presenti.
In mezz’ora arrivarono a Monteveglio, tra cori e scherzi sui sedili. Visitarono il borgo, con il punto panoramico e l’Abbazia; poi si diressero, come da programma, verso il parco regionale per il pranzo a sacco. C’era molta fibrillazione per la sfida, tutti avevano cominciato a parlarne fin dal ritrovo a scuola e avevano proseguito, senza farsi vedere dalle maestre, durante le visite guidate. Il momento più atteso della giornata stava per arrivare.
Quella gara, però, non fu mai disputata.
Camminavano nel sentiero del bosco da circa mezz’ora quando arrivarono al punto di sosta, dove trovarono i tavolini per il pic-nic.
La maestra Margherita tirò fuori l’elenco dei nomi per fare l’appello, come aveva fatto in tutte le tappe.
Scorse la lista fino all’ultimo cognome, Zanieri, ma Rocco non rispose.
-Rocco? – ripeté a voce alta.
-Maestra, Rocco non c’è!
-Come, non c’è… sarà qui, da qualche parte.
Poi riprese a chiamarlo, mentre la sua voce si faceva agitata:
-Rocco, rispondi! Su, esci dal nascondiglio. Se è uno scherzo, è di cattivo gusto.
Ma Rocco, ancora, non rispose.
Divenne pallida, fu colta dalla paura e da uno stato d’allarme che la fece precipitare nel più orribile dei sospetti. Dette un’occhiata alla collega: la preoccupazione si moltiplicò tra i loro sguardi.
-Torna in paese con i bambini e allerta subito le forze di polizia, io vado a cercarlo.
Lasciò il gruppo e si avventurò tra i sentieri, chiamando ripetutamente il nome di Rocco. Camminò per un’ora, forse due. Ma Rocco non rispose mai.
Sembrava sparito nel nulla, volatilizzato tra i dossi del bosco.
Di lì a poco subentrò la Guardia Forestale insieme al Soccorso Speleologico, tutti a scandagliare la zona.
I bambini furono ascoltati prima di essere accompagnati in città.
-Qualcuno ha visto qualcosa di strano? Chi ci ha parlato per ultimo?
Solo Anna si fece avanti e raccontò un episodio. Nulla di importante, si giustificò, ma erano stati invitati a riferire anche cose di poco conto e lei aveva giusto una di queste.
Per due o tre volte, mentre camminavano, aveva avuto la sensazione di vedere un’ombra tra gli alberi. Un animale, forse. Qualcosa che agitava le fronde senza troppo movimento.
-Ti ricordi dov’era Rocco in quel momento? Era ancora nel gruppo?
-Si, era davanti… no, forse no, era dietro. Non lo so.
Tutto sembrava condurre a qualcosa di incerto, sfuggito e perso senza lasciare alcuna traccia di sé.
In quegli stessi attimi, mentre i bambini venivano consultati, Rocco piangeva spaventato nel bagagliaio di una Ritmo rossa.
Prenderlo era stato fin troppo facile, un gioco da ragazzi… lo avevano preannunciato i rapitori quando avevano appreso della gita. Erano due mandanti della Banda del Grano, chiamata così perché si ritrovava, inizialmente, in alcune fattorie abbandonate del sud Italia. Avevano all’attivo già tre rapimenti, messi in atto per finanziare svariate attività malavitose e corrompere chi di dovere per la protezione dei latitanti.
Da qualche tempo, i due sequestratori sorvegliavano Rocco in ogni suo spostamento: all’entrata e all’uscita di scuola, al catechismo e nel campo di calcio, aspettando il momento buono per agire. Quella mattina, nascosti nella Ritmo all’interno del parcheggio, avevano avvistato il pullman davanti all’ingresso.
-La fortuna stamani ci assiste; se sale anche lui, è fatta.
Rocco era salito.
A distanza, avevano seguito il mezzo e tenuto d’occhio tutte le tappe finché erano arrivati nel parco. Lì, avevano realizzato un piano già pronto da tempo, facilitato da quella circostanza incredibilmente favorevole.
Rocco camminava insieme gli altri bambini, con le mani appoggiate sulle bretelle dello zaino. Era in fondo alla fila, con l’andatura lenta di chi fa qualcosa controvoglia.
Rimuginava su quello che sarebbe successo al pic-nic e ripeteva, tra sé, le parole con cui avrebbe annunciato che non aveva il pranzo.
Me lo sono scordato a casa… no, così no, sembrava fatto apposta per non gareggiare. Se l’è scordato mia mamma, è colpa sua. Anche questo non andava bene. Le mamme non si scordano i panini, lo sanno tutti. Lo teneva Silvio ed è rimasto in macchina… chissà se poteva andare.
D’un tratto vide qualcosa luccicare tra le foglie, a qualche metro di distanza. Un riflesso argentato e un piccolo pezzo di lamiera blu. Che fosse una macchinina? Che cosa ci faceva nel bosco? Si avvicinò e si chinò per afferrarla.
In quel momento, mentre aveva la testa giù e la mente distratta dalla sorpresa, sentì la pressione di una mano coprirgli la bocca e una presa tirarlo all’indietro. Non fece in tempo a dire niente, né vide chi lo aveva afferrato; fu imbavagliato e incappucciato prima di riuscire a gridare. Le mani legate dietro la schiena con una corda stretta, i muscoli che si contraevano e la sgradevole sensazione della pipì che bagnava i pantaloni, calda e improvvisa. Per qualche minuto, fu immobilizzato nel silenzio. Che sta succedendo? Il cuore gli batteva all’impazzata mentre la testa frullava nel vuoto.
Aiuto, mamma. Aiuto.
Si sentì prendere come un fagotto e mettere sulla spalla di qualcuno, poi tanti passi tra le foglie, senza parole. Il resto accadde in una sequenza di sventure, l’una addosso all’altra fino a dilatare il tempo: il rumore di una macchina che si apriva e lui scaraventato dentro, l’accensione, una sgommata sulla ghiaia e via, in velocità. Nonostante l’intensità di quegli eventi, ebbe la sensazione di vivere tutto al rallentatore.
Si mise a piangere sempre più forte, sentiva il moccio colare fino alla bocca e non poteva levarlo con le mani. I singhiozzi si impastavano con la saliva e il respiro diventava faticoso, con le narici intasate e la lingua che fregava sul bavaglio. Provò a dimenarsi ma i polsi facevano male, la corda stringeva e abradeva la pelle. Era caldo, un caldo asfissiante; sentì il vomito delle curve abboccare e scivolare al di là del fazzoletto, mentre in parte rimaneva lì.
Mamma vieni, ho paura.
Mamma vieni.
Ho paura mamma, ho paura.
Stette così per ore, chissà quante, mentre l’autoradio trasmetteva le canzoni del momento.
Gli parve di addormentarsi, forse di svenire, stordito dal disagio e dal calore, finché sentì un rallentamento dell’autovettura. Si fermarono, un uomo chiese il pieno e riconobbe l’odore della benzina, poi una ripartenza lenta e di nuovo fermi, poco più in là.
A motore spento, riuscì a distinguere due voci che si scambiavano poche battute.
-La cabina è questa. Stai pronto a partire.
Uno degli uomini scese, lasciando lo sportello aperto. Lo sbatté rientrando, subito dopo.
-Merda, merda!
-Che succede?
-C’è un appostamento prima di Roma, uno dopo Latina e chissà quanti altri ancora. Il sud è presidiato, bisogna invertire la rotta. Dobbiamo uscire dall’autostrada e andare per le campagne.
-Dove?
-In Val Padana e poi in Svizzera, a Como li richiamiamo. C’è un contatto sicuro prima di Zurigo, possono tenere il bambino per un po’. Adesso vai, vai! Se ci trovano siamo finiti.
Viaggiarono per ore, con brevissime soste. Tirarono un sospiro di sollievo dopo aver passato la dogana: i documenti falsi, evidentemente, erano bastati.
Quando arrivarono a destinazione e aprirono il bagagliaio, Rocco riconobbe i rumori della notte. La vita sui colli l’aveva allenato ai suoni degli alberi e al canto dei gufi. L’aria fresca lo fece respirare.
Lo tirarono giù e lo portarono, come un sacco, in un ambiente chiuso con un lucchetto a catena. Forse una stalla o una rimessa, qualcosa di simile: c’era odore di ferro e di fieno. Lo appoggiarono su un materasso che puzzava d’umido, poi uscirono e la macchina ripartì. Poco dopo, chissà quanto poco e chissà quanto dopo, di nuovo il rumore del lucchetto.
L’uomo che gli tolse la benda aveva il cappuccio e una bandana sul volto, vederlo fu come un’allucinazione.
Gli slegò i polsi e gli passò una ciotola piena di riso.
-Hier ist etwas zu essen.
Rocco non capì le parole ma comprese che poteva mangiare.
Prima di cominciare, bevve tutta l’acqua del bicchiere; l’uomo si allontanò lasciando impressa sulla sua retina la forma della sagoma curva e del cappuccio tirato su.
Si guardò intorno; nella luce fioca della notte, vide un ambiente inospitale e spoglio, con le pareti scrostate. Non c’erano mobili né oggetti, solo una sedia vicino al materasso e un secchio in fondo, accostato al muro. Le grate della finestra rendevano il pavimento quadrettato dall’ombra della luna.
Ingurgitò il riso per l’istinto a sopravvivere, poi sentì il pianto montare di nuovo, inconsolato.
Come mai sono qui? Dove sono i miei amici? Il pensiero girava in cerca di risposte che non sapeva trovare.
D’improvviso gli venne in mente quello che aveva detto la mamma la mattina e rabbrividì: il Kelpie era venuto a prenderlo.
Travestito da uomo, come sapeva fare, e l’aveva portato via con un aiutante. Forse Silvio aveva trovato il panino dietro il sedile e aveva avvisato la mamma… davvero era stata lei a chiamarlo?
Mamma perdonami, vieni a prendermi… mamma vieni.
Nei giorni successivi, la mente di Rocco entrò in un incubo senza fine; rimbalzava tra le ragioni senza trovare un riferimento per potersi organizzare, sbatteva sulle pareti bianche dell’incomprensione e poi tornava indietro, per ripartire daccapo.
Si sentiva abbandonato, immaginava la mamma arrabbiata e non aveva modo di chiederle scusa, implorava il suo perdono e poi, sfinito, si addormentava; la disperazione occupava in lui tutto lo spazio e non c’era altro da fare.
Fu in quel contesto che superò la soglia della minaccia percepita. Stretto tra la solitudine e la desolazione, incapace di spiegare e di vedere una via d’uscita, il giudizio di Rocco crollò e insieme a lui collassarono le sue funzioni cognitive.
Il senso di insicurezza e di pericolo costanti fermarono lo sviluppo dei suoi collegamenti e portarono al consolidamento di parti separate: il suo intelletto divenne un assemblamento discontinuo di funzioni, destinate ciascuna a viaggiare da sé.
Si trovò ad aspettare il rumore dei passi che portavano il cibo e a riconoscere quella parola, zuessen, che accompagnava l’arrivo della ciotola.
La cura e l’accudimento a cui era abituato si ritrassero sotto il peso del dolore; al loro posto subentrò, come uno sciacallo opportunista, uno strano senso di gratitudine verso l’uomo incappucciato, meritevole di nutrirlo in quei momenti di sgomento. Gli aveva portato un vestito per cambiarsi, una specie di camicia da notte sovrabbondante con cui stava giorno e notte, senza potersi lavare. Ogni tanto ripuliva il secchio dove faceva i suoi bisogni e aggiungeva la cenere. Per un paio di giorni, dopo, gli sembrava di riuscire a respirare. Cercava un contatto con lui quando entrava nella rimessa, mendicava un gesto di conforto, tentava in tutti i modi di suscitare un sentimento di pietà che potesse restituire qualche forma di consolazione, ma ogni tentativo cadeva nel vuoto.Vagò, randagio, tra i muri umidi di quel magazzino col pensiero fisso della mamma che non veniva a prenderlo; aveva nella mente l’immagine ossessiva di quel giorno, quando era ancora felice.
Chi glielo dice al Kelpie? – Aveva chiesto lui.
Lei lo aveva guardato e aveva risposto sicura: io, glielo dico io.
L’aveva detto, ne era certo. L’aveva detto e l’aveva fatto.
Lentamente, perse l’interruttore delle sue risorse e cadde nel buio più nero.
Cominciò a percepire una sensazione di irrealtà, come se il suo corpo stesse vivendo qualcosa che la sua mente vedeva solo dall’esterno, senza partecipazione diretta.
Guardava sé stesso piangere e mangiare, sentiva la sua voce lamentarsi per il mal di pancia, sfregava i polsi sull’inferriata della finestra per osservare il sangue che sgorgava da un braccio non suo. Si abituò a una forma di sofferenza differita che smorzava i colpi nell’impercettibile distanza tra il corpo e la mente, rendendo tutto confuso.
Fu proprio nello spazio di quell’interstizio, la più intima fessura dell’io, che la sua natura si sdoppiò: entrò da onda nella fenditura e uscì come un insieme disgregato di particelle lasciate cadere nel vuoto.
Rimase sempre così, incapace di tornare completo.
Un giorno, inaspettatamente, sentì aprire il chiavistello in orario diverso dal solito. Si destò, colpito dal rumore. Era buio, il gufo cantava in lontananza.
Riconobbe, controluce, la sagoma dell’uomo col cappuccio. Lo vide avvicinarsi e si sentì scosso con veemenza.
-Flieht du bisch frei!
Poi scappò via, lasciando la porta aperta.
Per qualche secondo, Rocco rimase immobile, impreparato a quella circostanza.
Si alzò e corse fuori; sentì il freddo dell’aria arrivargli sulla faccia e d’un tratto vide la luna comparire sopra di lui, piena e luminosa. Scalzo, imboccò il vialetto e si ritrovò su una strada sterrata tra i campi. Camminò per ore, senza girarsi. Assistette al sorgere del sole dietro la montagna e continuò ancora, con la paura di essere catturato di nuovo.
Sulla Provinciale, fu notato da un camionista che trasportava bestiame.
L’uomo, al termine del turno, aveva guidato tutta la notte e stava per giungere a destinazione; di lì a poco, finalmente, si sarebbe fermato per riposare. Sbadigliò, aprì il finestrino e accese la radio per tenersi sveglio. Da diverse ore passava la notizia dell’arresto di tre esponenti della Banda del Grano, presumibilmente responsabili del rapimento del piccolo Rocco Zanieri, il figlio dell’imprenditore bolognese.
Ascoltava, distratto dalla ripetitività del viaggio, quando la sua attenzione fu attratta da qualcosa. In lontananza, una figura esile si muoveva barcollando. Aveva una tunica addosso o qualcosa di simile, un abito chiaro, lungo e diritto. Era una sagoma troppo piccola per essere un uomo, poteva essere una donna? Non europea, per come era vestita. Sembrava anche molto bassa, per la verità. Man mano che giungeva in prossimità, la figura si faceva nitida e oggettivamente piccola.
In pochi secondi arrivò vicino, rallentò e rimase sbalordito: si trattava di un bambino. Avrà avuto l’età dei suoi figli, sei o sette anni al massimo; era molto magro e decisamente pallido. Che fosse proprio lui il ragazzino rapito? Lo cercavano nel sud Italia, che cosa faceva lì?
Accostò e scese. Il cuore cominciò a battergli forte.
-Ehi, piccoletto – disse in italiano.
Preso dalla stanchezza e dall’emozione di quelle parole, pronunciate nella sua lingua, Rocco lasciò andare la tensione e svenne.
Non vide altro; il suo corpo, esausto e denutrito, cadde per sfinimento.
Quando si svegliò, era in un letto d’ospedale, con la mamma che gli accarezzava la fronte e il papà, due passi in dietro, che si asciugava gli occhi con un fazzoletto.
L’immagine di suo padre lo portò in un tempo lontanissimo, fatto di cose a cui non aveva più pensato. In un attimo provò la sensazione dell’assenza, il profumo della domenica e l’attesa dei regali a Natale. Papà adesso era lì, anche se non stavano per pranzare. Aveva un’espressione che non aveva mai visto. Amorevole, forse… non era pronto a capirlo di nuovo.
Sorrise a metà, interdetto. Il profumo del lenzuolo era troppo diverso dall’odore del materasso che aveva lasciato, la stanza troppo pulita e gli eventi troppo veloci, contro gli attimi eterni della prigionia. Quante notti era stato lontano? La sua mente faticava a trovare dei riferimenti.
La memoria, per lui, era una tavola piatta; l’unica cosa che vedeva, nella sua mente, era un bambino che piangeva e aspettava la ciotola per mangiare, chiuso in una rimessa chissà dove.
Avrebbe detto, più tardi, che quel bambino era stato isolato per una ventina di giorni.
Invece erano passati quasi due mesi.



