17. La coincidenza, il Palio, lo sguardo della madre
Da qualche tempo Adele guardava il figlio con aria preoccupata. Era passato più di un anno da quando la famiglia aveva lasciato Siena, in quel periodo Greg si era diplomato e aveva dato i primi esami nella facoltà di Matematica. Adele osservava i suoi movimenti, sentiva che si alzava la mattina presto e cominciava subito a studiare, chino sui libri ancor prima che sorgesse il sole; poi usciva per seguire i corsi all’università e tornava, qualche ora dopo, per assumere la stessa identica posizione in cui lei l’aveva trovato all’alba, quando si era svegliata.
-Così non va bene – rimuginava la donna tra sé- un ragazzo della sua età deve uscire, frequentare degli amici, andare al cinema.
Le considerazioni di Adele erano frutto di diversi fattori che certamente combinavano il buon senso comune e l’istinto materno, ma acquisivano un valore aggiuntivo per via del suo vissuto personale. C’era un motivo preciso per cui Adele pensava che il figlio dovesse fare quelle cose ed era che lei, quando era stato il momento, non le aveva fatte.
La storia di Adele era un’accozzaglia di vicende sfortunate, un susseguirsi di labirintici sentieri tra i campi delle disgrazie in cui la donna aveva brancolato nei primi anni di vita fino all’incontro con Libero, quel giorno in cui lui si avvicinò al banco del supermercato per comprare il gorgonzola.
La sua infanzia era un ricordo nebuloso che compariva a tratti e proponeva la sua subdola forma nei momenti di stress, quando la tensione prevaleva sulla volontà di dimenticare. A cinque anni era stata adottata, insieme a suo fratello, da una famiglia di brave persone che vivevano in una zona di campagna vicino a Siena. Poco dopo l’arrivo dei due bambini, però, i genitori adottivi vennero a mancare, coinvolti entrambi in un incidente mortale sulla strada statale tra Siena e Firenze. Adele venne data in affido a una zia, suo fratello venne messo in collegio nei pressi di Colle val d’Elsa.
La bambina si trovò a vivere nell’ombra, chiusa nel silenzio delle sue sventure.
La zia l’aveva accolta come una tassa da pagare, costretta da un’esplicita richiesta del parroco e dal giudizio bisbigliato dei paesani; improvvisò in salotto un letto per la nipote senza offrirle mai una parola di conforto o un abbraccio sincero.
Stretta tra il dolore e la malinconia della solitudine, Adele sviluppò l’attitudine alla trasparenza: era talmente riservata da sembrare assente, tanto esile e dimessa da risultare inconsistente. A scuola sedeva in disparte e produceva risultati decisamente mediocri, non scambiava parole con i compagni e passava il tempo della ricreazione ad annodare un gomitolo di lana azzurra che portava sempre con sé. La sua situazione, così diversa da quella degli altri bambini, non le consentiva di trovare con loro alcun punto di contatto; i rari tentativi di socializzazione non avevano fatto altro che amplificare la percezione dell’incolmabile divario e l’avevano convinta a tornare nel suo angolo di silenzio, sempre più chiuso e corazzato.
La cosa che le mancava di più, a cui pensava mentre annodava la lana, erano gli occhi di una mamma. Non sapeva che forma avessero quelli della sua madre naturale e non ricordava l’espressione della donna che l’aveva adottata; nulla nella sua memoria poteva aiutarla a costruire uno sguardo che le desse speranza. Continuò a pensare a quell’assenza per molti anni e quando fu più grande capì una grande verità, una legge naturale che finalmente la eguagliava a tutti gli altri: senza uno sguardo in cui riflettersi nessuno può trovare se stesso. Quel rimbalzo di luce tra le pupille, quello scambio di espressioni e quel riverbero di onde emotive sancivano un protocollo di intesa che superava ogni altra forma di comunicazione. Nello sguardo della madre era scritta per intero la storia di ogni figlio: il modo in cui sarebbe diventato, la sua dolcezza, la sua forza e il suo futuro.
Così Adele, che non aveva alcuno sguardo in cui riflettersi, non riusciva a trovare una forma. Le mancavano l’incoraggiamento e il sorriso della fiducia; aveva bisogno di una guida e non sentiva il conforto: senza quella luce, lei non era niente.
Un giorno successe qualcosa, un evento quasi insignificante che per lei segnò l’inizio di una nuova vita. All’uscita di scuola le si avvicinò la mamma di una sua compagna, una signora che stava andando verso il portone dell’istituto e che inciampò nel suo sguardo mentre cercava la figlia.
-Come sei carina- le disse- sei fine come un’attrice. Ecco, sì…somigli a Audrey Hepburn.
Adele non sapeva chi fosse la diva menzionata ma continuò a ripetere quel nome per tutto il tragitto, fino a quando fu a casa. Appena entrata prese un foglio e scrisse: ‘Odri Eppur’. Poi lo ripiegò con cura e se lo mise in tasca.
Nei giorni successivi chiese informazioni a quelli che incontrava: domandò al parroco, al vicino di casa, al custode della scuola e alla maestra.
Tutti si stupirono del fatto che la bambina fosse uscita dal suo riserbo e furono contenti di partecipare alla ricerca; dissero quel che sapevano e non mancarono di infarcire il racconto con delle interpretazioni personali, talvolta poco credibili ma sempre molto suggestive.
Così Adele, tra gli aneddoti e le favole, finalmente trovò un’identità.
Guardò tutti i film dell’attrice e imparò a mente i dialoghi: le parole di Audrey riempirono i suoi silenzi e dettero un tono di leggerezza ai suoi pensieri; con quella voce dentro, lei si sentì meno sola.
Da allora fu tutto un susseguirsi di novità, trovò un ruolo e una caratteristica proprie: per tutti, lei era la bambina che sapeva i film a memoria.
Diventò grande e si affrancò dalla zia, poi decise di andare a vivere in città per ampliare l’orizzonte delle sue vedute e trovò lavoro a Siena, nella gastronomia di un piccolo supermercato. Lì conobbe Libero e tutto diventò improvvisamente luminoso.
Forte della sua storia e del suo bagaglio di pensieri, quel giorno di molti anni dopo Adele decise di parlare col figlio.
Si sedette vicino a lui mentre studiava e aspettò che sollevasse gli occhi.
-Devi andare a Siena – gli disse – devi rivedere Mia.
Greg arrossì e la guardò stupito. Non sapeva che la mamma fosse a conoscenza del suo debole per la ragazza. Non immaginava che lei sapesse l’origine del suo tormento.
-Ma come faccio- rispose- non posso allontanarmi di qui!
-Stai tranquillo, non lo diremo a nessuno- replicò lei – sarà un segreto tra noi. Starai via solo un paio di giorni, nessuno si accorgerà dei tuoi spostamenti.
Greg sorrise. Poi sorrise ancora e poi ancora.
-Grazie- disse- sei la madre più folle del mondo.
-È perché ti amo- rispose lei.
Così Greg partì, due giorni dopo. Disse al padre che andava da un amico, mise un cambio di vestiti nello zaino e si diresse all’aeroporto.
Dopo qualche ora arrivò a Firenze, aspettò il pullman e, a fine giornata, giunse finalmente a Siena.
Appena sceso chiuse gli occhi e fece un respiro profondo. Da tanto tempo non sentiva l’odore della sua città.
Camminò tra i turisti, si lasciò cullare dal suono delle voci e dal profumo di ricciarelli che usciva dalle pasticcerie del Corso. Arrivò in Piazza del Campo e vide che era allestita per il Palio.
-Non ci avevo pensato! – disse tra sé. Poi si girò verso un passante:
-Scusi, sa dirmi chi ha vinto la corsa?- Domandò.
-La Tartuca- Rispose lui- Ma per un pelo, stava per vincere la Selva ma c’è andata male anche stavolta, maremma zoppa.
-Grazie – Aggiunse Greg sorridendo.
Il ragazzo si mise a passeggiare chiedendosi in quale modo avrebbe potuto incontrare Mia il giorno successivo, senza farsi vedere da nessuno. Cenò in una pizzeria e continuò a camminare per il centro, guardando ogni strada, ogni arco e ogni vicolo che incrociava.
Percorse via di Città e poi svoltò a destra, in via del Capitano, pensando di raggiungere il Duomo e poi scendere veloce dalla scalinata, come faceva da piccolo. Camminava con le mani in tasca e fischiettava, quando improvvisamente vide quello che non avrebbe mai voluto vedere.
Davanti ai suoi occhi, qualche metro più avanti, Mia usciva dal Palazzo del Capitano abbracciata a un ragazzo. Lui la teneva stretta per la vita, ogni tanto le baciava il collo e le sussurrava qualche parola nell’orecchio.
Lei rideva. Greg su fermò di colpo, avvertì una fiammata e un cedimento alle gambe; realizzò in un istante l’unica ipotesi che non aveva contemplato: Mia era felice con un altro.
Li guardò, mentre si allontanavano. Non disse niente, non fece niente. Si avvicinò a un cestino e gettò il fermacarte che aveva comprato all’aeroporto. Era una semisfera di vetro con una scritta rossa nell’interno:
‘LA LONTANANZA E’ UNA SCUSA PER TORNARE.’
Rimase zitto Greg per quel che aveva visto
sfornito di parole di fronte all’imprevisto;
Non seppe se pensare di essere tradito,
se fosse suo il diritto di essere stordito.
Si chiese dove avesse trovato la speranza
di credere che il bene vincesse la distanza.
Si disse che la vita era tutta un’illusione
e che chi sogna paga per ogni commozione.
Percorse il centro a piedi, nel mezzo allo sconforto
tornò sui propri passi e giunse all’aeroporto.
Viaggiò nel verso opposto col cuore ribaltato
senza trovare un senso, deluso e amareggiato.
Sentì forte l’istinto di chiuder la partita
di abbandonare il campo e andar verso l’uscita.
Concluse quella storia col nodo nella gola
spinto dalla certezza che Mia non era sola.
Ci ripensò ogni tanto, nelle notti d’estate
scorse qualche ricordo delle cose passate.
In quei rari momenti, fievoli e offuscati
sfiorò la verità e i suoi significati.
Successe allora a lui quel che succede a volte,
trovar la retta via tra mille giravolte.
Nelle sere più buie, lontano da ogni luce
appare a tutti chiara la stella che seduce.