23. Il risveglio di Libero
Libero si risvegliò come si era addormentato, con l’immagine di suo nonno che gli faceva l’occhiolino.
Cominciò a sentire dei rumori in lontananza, suoni e voci della casa che progressivamente diventavano più decisi e più reali fino a quando ebbe la percezione netta di trovarsi lì dove aveva perso conoscenza, nell’appartamento a Lisbona.
Riconobbe i gesti di Adele che rassettava in cucina, il fracasso del traffico fuori dalla finestra, il sottofondo sordo della vita in città. Davanti a tutto, nei suoi occhi ancora chiusi, il ricordo del nonno che gli afferrava il braccio e poi tornava a dormire. Libero comprese, in quel momento tra il sogno e la ripresa, che quel pensiero era un’indicazione precisa; gli apparve improvvisamente chiaro che il suo progenitore, a cui lui somigliava in tutto e per tutto, aveva voluto mostrargli con quel gesto un’arma di difesa: la possibilità di fingere per poter temporeggiare. Libero trattenne la tentazione di sbarrare gli occhi e rimase ad aspettare; fermo, immobile, abbandonato e assente. Capì subito che non sarebbe stato impossibile, per lui, fingersi addormentato: era abituato a entrare e uscire dalla porta dell’incoscienza e a vivere l’estraniamento da sé stesso come una condizione naturale. Così rimase in attesa un giorno, poi un altro e un altro ancora, nella stessa posizione in cui si era svegliato, con il cuscino sotto le spalle e la flebo nel braccio.
Imparò a esercitare lo sguardo di notte, quando sua moglie dormiva e la luce dei lampioni filtrava dall’avvolgibile abbassato, nel riflesso sfocato di un chiarore timido e appena percettibile; lasciò che il suo corpo venisse accudito da Adele come accadeva da quando si erano sposati, tutte le volte che perdeva i sensi.
Passava le giornate assecondando il ritmo lento delle sue abitudini, ascoltava le trasmissioni di Canale Italia che lei seguiva con il languore della nostalgia da quando erano partiti, dodici anni prima. Teneva il conto del calendario e cercava dentro di sé la strada per una soluzione: finché era addormentato, gli uomini vestiti di grigio non potevano portarlo via.
In quei silenzi interminabili Libero cominciò a pensare, ripercorse la storia dall’inizio e rivide scena per scena ogni avvenimento che l’aveva portato al punto in cui adesso si trovava.
Tutto era cominciato un giorno di luglio, quando lui e la sua famiglia avevano preso una casa in affitto vicino al mare per passare l’estate, in provincia di Pisa.
Era un vecchio casolare sulle colline a qualche chilometro dalla costa, la dependance di una villa con un grande giardino fresco e un po’ decadente, in cui la vegetazione aveva preso il sopravvento aggiungendo un tocco di fascino alla struttura che risultava visibilmente trasandata.

Lui e Adele avevano scelto quel posto per la quiete e per il contatto con la natura, Greg aveva accettato di buon grado per la vicinanza al mare e per la possibilità di invitare qualche amico nella vecchia piscina ancora funzionante che era annessa alla villa.
Quella mattina Libero aveva preso un testo da studiare e si era accomodato su una sedia a sdraio con le gambe incrociate e i piedi appoggiati su un masso all’ombra di un fico. Adele e Greg si erano svegliati presto per andare al mare, lui leggeva e canticchiava muovendo la testa a destra e a sinistra per cadenzare i pensieri, fermandosi di colpo e inarcando istintivamente la schiena quando arrivava ai passaggi più complessi.
Proprio in uno di quei momenti, mentre cercava di capire, alzò gli occhi e vide arrivare in lontananza un uomo. Era un signore anziano, con la barba incolta e una camicia a scacchi rossa e nera. Percorse il piccolo viale sterrato e giunse fino a lui.
-È lei che si intende di numeri? – gli disse quando fu vicino.
Libero capì la domanda solo in parte e rispose a suo modo, con il profilo linguistico che caratterizzava l’interpretazione letterale di ogni questione che gli veniva posta.
-Studio i numeri in relazione all’analisi complessa, a volte la intendo e altre volte la equivoco. E allora me ne dolgo.
-Piacere, riprese l’uomo un po’ perplesso. Mi chiamo Fausto e sono il fattore di questa tenuta.
-Che cosa fa? – chiese Libero.
-Faccio il contadino, poto le piante, mantengo la casa. Anche se ormai va tutto in malora.
-Mi chiamo Libero Martinelli. Si accomodi, prego.
I due si dettero la mano e Fausto si mise a sedere sul masso.
-Vede, riprese l’uomo – sono venuto per un motivo preciso. In questa casa, moltissimi anni fa, c’è passato un altro che si intendeva di numeri. Io non ero ancora nato, si chiamava Eugenio Beltrami. Ne ha mai sentito parlare?
-Sì, è stato un bravo matematico.
-Aveva preso in affitto una parte della villa come adesso ha fatto lei. E l’ha tenuta fino alla morte. Quando è venuto a mancare sono rimasti qui alcuni suoi oggetti, qualche vestito, dei fogli di appunti e soprattutto libri. Sono stati sistemati in un angolo della casa e sono rimasti lì fino ad oggi, perché nessuno è mai venuto a prenderli. Ora però la villa è stata venduta, ci fanno degli appartamenti per i russi.
Fausto fece una breve pausa, mentre il colorito del suo viso diventava sempre più paonazzo al pensiero degli stranieri platinati e rigidi come playmobil che di lì a poco avrebbero attraversato con i tacchi alti e le auto di lusso le zolle fertili di quella campagna benedetta.
– Non mi faccia commentare – aggiunse con la voce ruvida e il tono arrabbiato – chi dà via la bellezza per i quattrini, della bellezza non ha capito nulla, vigliacca miseria! Ad ogni modo, il proprietario mi ha detto di liberare la casa e di buttare tutto al macero. Ora vede, io son contadino; sono nato contadino e morirò contadino. E una cosa ce l’ho chiara nella testa: se qualcuno semina, quel campo non si può calpestare; perché la fatica di uno è la fatica di tutti e va rispettata prima d’ogni cosa. Altrimenti da quel campo non sorte niente e prima o poi si muore tutti di fame. Mi intende?
Libero seguiva con attenzione. Fausto aprì una borsa di tela che aveva con sé ed estrasse un plico, poi lo porse a Libero.
-Questi sono gli appunti di Beltrami, è una fortuna che lei sia qui. La manda il Signore! – disse guardando il cielo – Non potevo proprio veder bruciare queste carte ma non sapevo a chi darle, qui nessuno si intende di numeri.
-Grazie – disse Libero sorpreso. Posso offrirle qualcosa? Una bevanda liscia o gassata, un bicchiere d’acqua…anche refrigorata se vuole, oppure della temperatura che abbiamo entrambi intorno…
-Niente – rispose Fausto mentre lo guardava con una certa esitazione, chiedendosi se i matematici parlassero tutti in quel modo. Poi concluse:
-Quando lavoro non sono abituato a bere, sennò poi sudo di più. Ma è come se avessi accettato, arrivederci.
Fausto si alzò e tornò da dove era venuto. Libero lo vide allontanarsi e lo seguì con lo sguardo, finché la camicia a scacchi nera e rossa scomparve dietro la collina.
Aprì il pacco ed estrasse gli appunti, pagine piene di conti e di figure che Beltrami aveva annotato con ordine ed estrema precisione. Cominciò a sfogliarle, quando vide uscire una busta da lettere.

La aprì incuriosito e ne lesse il contenuto: Enrico Betti scriveva a Beltrami per comunicargli la morte del loro amico Bernhard e gli chiedeva di trovare un posto sicuro in cui nascondere un quaderno che gli era stato affidato.
-Bernhard…Bernhard! – esclamò Libero mentre pensava a voce alta.
Gli fu subito chiaro che si trattava di Bernhard Riemann e che il quaderno in questione era un oggetto di valore inestimabile.
Si alzò dalla sdraio e cominciò a girare intorno, incrociando le gambe in lunghe falcate circolari. Mormorava frasi spezzettate e si metteva le mani nei capelli mentre cercava di mettere a fuoco le idee, sconvolto per quanto aveva appena letto. Scorse freneticamente tutti gli appunti e tutti i fogli che gli erano stati consegnati, poi andò a cercare Fausto procedendo nella stessa direzione in cui l’aveva visto scomparire.
Lo trovò nel campo, seduto sotto un pero a guardare le zolle lavorate; aveva l’aria triste di chi assapora l’amarezza della fine.
– Mi disturbi se la perdono – disse Libero quando fu vicino.
-Per quel che ho da fare…- commentò Fausto.
-Vorrei chiederle di scrutare gli altri oggetti di Beltrami, ho trovato qualcosa di ragguardevole.
Fausto si alzò e lo accompagnò nella villa.
– È tutto lì – disse indicando degli scatoloni in un angolo.
Martinelli si mise a guardare ma non trovò alcun quaderno; quindi tornò al casolare. Fu quello l’inizio di una ricerca spasmodica, l’innesto di un chiodo fisso che presto divenne ossessione. Libero si convinse che il quaderno di Riemann fosse nascosto da qualche parte nella proprietà e capì che non si sarebbe dato pace finché non fosse riuscito a trovarlo.
Cercò in ogni posto, scandagliò per l’intera estate ogni angolo della villa e di tutti i suoi annessi, compresi il fienile e il vecchio pollaio dei contadini, ma non ottenne alcun risultato.
A settembre la famiglia Martinelli ripartì per Siena, l’autunno era alle porte e ciascuno doveva tornare alle proprie occupazioni di sempre; stavano per riprendere i corsi all’Università e Greg doveva rientrare a scuola per frequentare l’ultimo anno del Liceo. Libero si accordò con Fausto per introdursi nella tenuta tutte le volte che ne avesse avuto bisogno: finché non fossero arrivate le ruspe, lui aveva il permesso di agire indisturbato.
-Non mi pare il vero di sottrarre quella roba ai russi – disse Fausto – son cose nostre ed è bene che rimangano a noi.
Così Libero partiva da Siena la mattina presto, diceva ai colleghi che si recava per delle ricerche alla Normale di Pisa e passava l’intera giornata nella villa in campagna a cercare con Fausto il quaderno di Riemann.
-Senta un po’ signor Libero – gli disse Fausto un pomeriggio – mi è venuta in mente una cosa. Al confine della tenuta, subito prima del cancello, ci sono delle vecchie lapidi. Ci avranno seppellito qualche morto di famiglia, immagino. Ieri ci ho inciampato e ci ho battuto un piede, altrimenti non avrei visto nulla perché è tutto coperto dalle erbacce.
-Mi ci porti – disse Libero – gliene sarei riconoscente.
Arrivarono nel posto indicato da Fausto e tagliarono le erbacce con la falce. Sentirono che c’era qualcosa di duro e spostarono la terra con le mani, finché comparve una lastra di marmo su cui si leggeva una scritta scolorita e corrosa dal tempo:
Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio
Libero alzò le braccia al cielo, poi si mise le mani nei capelli e fece una risata grassa. Abbracciò Fausto ed esplose in un urlo di gioia. Il contadino ricambiò, prima ancora di capire che cosa avevano trovato.
-È la scritta che c’è sua tomba di Riemann a Verbania! Ci siamo Fausto, ci siamo!
Si misero a scavare e trovarono una scatola di metallo. Il contenuto era quanto di più sacro Libero potesse immaginare: il quaderno di Riemann era incredibilmente nelle sue mani.
Se qualcuno avesse potuto sbirciare nella tenuta, quel pomeriggio di settembre, avrebbe visto due figure in controluce che si abbracciavano e sollevavano la falce in segno di vittoria; un contadino e un matematico davanti al rosso del tramonto che condividevano la fatica di una gioia grande, dura come una zolla da seminare e miracolosa come una pianta che prende la vita.
Su quel pensiero di molti anni prima, nella casa di Lisbona Libero fece un sorriso. Per fortuna nessuno se ne accorse: gli uomini grigi erano già passati dalla sua stanza e Adele in quel momento si trovava in cucina.

Una volta ripercorsa la vicenda della scoperta, Libero sentì il bisogno di continuare a ricordare, avvertì la necessità di proseguire nel percorso della memoria per capire che cosa fosse successo dopo, visto che lui non aveva parlato con nessuno e che nessuno sapeva del suo ritrovamento. Come avevano fatto, quelli che lo cercavano, a capire che era in possesso del quaderno? Chi aveva saputo? E chi aveva parlato? Queste domande giravano nella sua testa da anni, senza trovare risposta. Adesso, nel buio dei suoi occhi chiusi, provava la strana sensazione di essere vicino alla svolta. Tornò alle immagini dei suoi ricordi e ci si immerse completamente, dall’inizio alla fine. Rivide sé stesso arrivare a Siena, quella sera di settembre, entrare in casa e salutare distrattamente Adele, mentre reggeva la borsa di pelle contenente l’oggetto della sua scoperta. Ripercorse, tappa per tappa, tutti gli spostamenti e tutti i dettagli di quei giorni convulsi e febbrili, dal momento in cui varcò la porta a quello in cui vennero a prenderlo per portarlo a Berkeley. Appena tornato andò nello studio, estrasse il quaderno dalla borsa e lo nascose in un’anta della libreria. Valutò, almeno per il momento, di tenerlo separato dalle lettere di Beltrami e di non portarlo in Facoltà; voleva guardarlo e studiarlo da solo per poi decidere che cosa fare. Sapeva bene che il contenuto, una volta compreso, avrebbe potuto mettere in crisi i sistemi di sicurezza del mondo intero; c’era in palio un milione di dollari e quell’insieme di carte rappresentava un piatto fin troppo goloso per molti dei suoi colleghi. Così si impose di tirar fuori il quaderno quando era nella sua abitazione, lontano da occhi indiscreti; in quei casi lo sfogliava e cercava di dar senso a tutti i simboli per capire il miracoloso contenuto.
Improvvisamente, quel giorno a Lisbona, gli venne in mente qualcosa. Era un episodio a cui non aveva mai pensato e che adesso appariva stranamente nitido nella sua memoria. Rivide la scena per intero, sentì di nuovo i suoni e percepì le sensazioni di quella volta, in cui tutto cambiò.
Stava studiando, chino sulla sua scrivania, quando Adele bussò alla porta.
-Caro, c’è Giuliano. Vuole parlare con te.
Libero chiuse d’istinto il quaderno e, in men che non si dica, vide Giuliano Silvi entrare nella stanza.
Aveva l’espressione seria e preoccupata, Libero si allarmò e lo invitò ad accomodarsi. Silvi era un vecchio amico, gli aveva fatto da testimone di nozze e bazzicava la loro casa da sempre. Quando Greg era piccolo, andava a trovarlo la domenica mattina e gli portava i modellini per costruire gli aerei di compensato. Tutti in casa Martinelli lo consideravano uno di famiglia e lui sapeva di essere sempre il ben venuto.
-Giuliano….che cosa è successo? – Chiese Libero.
Si mise a sedere e cominciò a parlare.
-Linda se ne è andata, mi ha lasciato.
Appoggiò i gomiti sulle ginocchia, si mise le mani nei capelli e continuò a raccontare.

- – Mi sento così solo Libero, tanto arrabbiato e tanto impotente. Non è giusto, non è giusto!
Libero lo guardava in silenzio, senza saper che dire.
-Sarà una crisi passeggera, vedrai che poi ci medita.
-Non credo proprio. Ha preso tutte le sue cose ed è partita. Ha scritto tutto in un biglietto, dice che ha il diritto di essere felice e che con me non lo è mai stata.
In quel momento, mentre Giuliano si sfogava, la sua espressione cambiò. Cominciò a fissare nel vuoto e poi prese a dire delle cose strane, quasi farneticando e parlando sotto voce.
-La mia vita è da buttare. Sono un matematico di basso livello, non ho avuto figli, non sono stato capace di vincere un concorso. Adesso Linda che se ne va…non è giusto…sono un buono a nulla! Niente resterà di me, niente – disse con gli occhi iniettati di rabbia – Invece tu hai Adele, hai Greg…e sei pieno di talento. Tutti dicono che stai lavorando a qualcosa di importante, le voci girano Libero, e per me non sono mai girate. Diciamo la verità…sui miei studi nessuno ha mai detto nulla! La vita è stata avara con me, la sorte mi ha punito per la mia mediocrità.
-Adesso sei scosso, non devi pensare così – aggiunse Libero con dispiacere.
In quel momento entrò Greg, disse al padre che Anna lo cercava e che doveva chiamarla subito. Libero avrebbe preferito proseguire la conversazione e non interrompere l’amico, ma sua sorella chiamava raramente per chiedere aiuto e se adesso l’aveva fatto era evidente che non poteva aspettare.
-Dammi solo un secondo – gli disse guardandolo – torno immediatamente.
Uscì dalla stanza e ricomparve dopo qualche minuto.

Ecco come era andata! In quel momento a Lisbona, Libero vide per la prima volta l’origine del dramma: era uscito dalla stanza e aveva lasciato Giuliano solo con le lettere di Beltrami e il quaderno di Riemann sulla scrivania. Finalmente tutto prendeva un contorno, tutto trovava una spiegazione. Proprio Giuliano! Libero stentava a credere alle sue deduzioni: Giuliano era il suo amico più fidato, aveva le chiavi della loro casa per annaffiare le piante d’estate e aveva condiviso con loro tante vacanze e tanti pranzi di Natale. Giuliano l’aveva tradito!
Si sentì pugnalare dentro e fece una smorfia di dolore.
Rivide la scena di quello che successe dopo, quando tornò nella stanza.
-Scusami, devo andare – gli disse.
-Ma no, fermati…pasteggia con noi, ci farà piacere.
Giuliano si alzò senza guardarlo e non aggiunse niente, uscì dalla casa della famiglia Martinelli e da allora non si videro più. Il suo dramma era cominciato così, in quel giorno di tanti anni fa.
Libero ebbe un’improvvisa sensazione di svuotamento; gli parve di aver esaurito i pensieri insieme alla voglia di ricordare; adesso sapeva come erano andate le cose e si sentiva tremendamente solo. Che cosa poteva fare? Prima o poi avrebbe dovuto palesare il suo risveglio e gli uomini grigi l’avrebbero portato via. Gli parve di non avere via d’uscita, il tempo scorreva lento e lui non aveva altro a cui pensare; si lasciò andare a uno stato di incoscienza che per qualche ora lo tenne lontano dall’amarezza e dalla delusione.
Si risvegliò con il rumore della televisione; erano le 19 e Adele guardava il notiziario su Canale Italia.
Sentì lo stacco della sigla e poi la voce del giornalista, che lo fece improvvisamente sobbalzare.
-Iniziamo con una notizia singolare. Cinque diversi giornalisti, provenienti da paesi diversi, hanno dichiarato in conferenza stampa di aver ricevuto una lettera con la convocazione per un appuntamento di rilevanza internazionale. Le missive, secondo fonti indiscrete, sarebbero state spedite da Siena, città del noto matematico Libero Martinelli, sulla cui scomparsa si sta tutt’ora indagando. Sembra che l’argomento riguardi il ritrovamento di un quaderno, contenente dati preziosi sull’Ipotesi di Riemann. L’appuntamento, a cui sono stati invitati matematici da tutto il mondo, è per i 25 gennaio a Verbania, sul Lago Maggiore.
Adele, che stava seguendo ammutolita, sentì la pentola caderle dalle mani e si precipitò da Libero.
Lo trovò con gli occhi sbarrati.
-Guarda se di sotto ci sono ancora gli uomini grigi – disse lui – ora che la notizia si è diffusa non hanno più motivo di volere me.
Adele si affacciò.
-Non ci sono più!
-Dobbiamo recarci sul Lago Maggiore – aggiunse Libero.
-Prendo la fede – bisbigliò lei.
Quella sera, a Siena, Giuliano Silvi accese la televisione e sentì la notizia. Ascoltò con attenzione, poi spense la tv e si diresse in cucina. Prese la confezione dei sonniferi e ne inghiottì due, come d’abitudine. Si sdraiò sul letto e si addormentò, con una smorfia di cinismo sulle labbra.
-Finalmente ci siamo – pensò prima di entrare nel sonno profondo – è quello che merito.
Non fu l’unico, quel giorno, a vedere il notiziario. A Pisa Fausto stava lavando la scodella della cena quando la sua attenzione fu improvvisamente catturata dal vento che soffiava forte fuori dalla finestra. Andò per fissare i vetri, in modo che gli scuretti non battessero sulle ante e passò vicino alla televisione accesa. Quando trasmisero l’immagine di Libero si fermò di colpo e ascoltò la notizia. D’istinto appoggiò l’asciughino sulla stufa a legna e mise le mani sulla spalliera della sedia per tenere in equilibrio le sue vecchie gambe tremanti. In quella posizione rimase fermo, immobile a pensare. Poi ebbe una sensazione singolare e sentì un brivido profondo; abbassò il volume della televisione e inclinò la testa per ascoltare il suono di una voce che attraversava il tempo. Era la voce di Libero Martinelli, l’uomo che parlava strano e si intendeva di numeri.
-Grazie – sentì dire nel fruscio del vento.
Lui sospirò, aprì i vetri della finestra e fece una risata. Poi si affacciò sulla campagna e gridò forte, con tutto il fiato che aveva nella gola:
-Caro matematico, è stato un piacere!
