La luce brillante della sconfitta
L’articolo che state leggendo nasce da una conversazione con Andrea Muzzi, splendido attore e regista toscano.
Ci siamo trovati sabato scorso per parlare del suo spettacolo, uno show che da qualche anno porta a giro per l’Italia e che, il 12 Marzo, vedrà la sua quindicesima replica al teatro Puccini di Firenze.
L’appuntamento era in biblioteca, un luogo che consente a tutti di mescolare le proprie storie con quelle dei libri. Nel silenzio ovattato delle sale di lettura, i volumi di parole sugli scaffali forniscono un rifugio naturale capace di allontanare la routine, i doveri scomodi e talvolta anche i brutti pensieri.
Le biblioteche sono spazi collettivi privi di inquinamento acustico e il tono delle voci, necessariamente basso e rispettoso, rende ogni conversazione immediatamente confidenziale.
Così è stato anche sabato pomeriggio, mentre il sole filtrava silenzioso dai vetri e timidamente mescolava il carnevale con la primavera.
-Ciao Andrea – grazie di aver accettato il mio invito – ho detto io all’inizio.
-Grazie a te – ha riposto lui mentre si toglieva la bombetta (la bombetta!).
Ci siamo seduti su un divano rosso e io ho aperto il mio quaderno di appunti.
-Parlami del tuo spettacolo, di che cosa tratta?

Affronta il tema della sconfitta: durante lo show racconto alcune disfatte clamorose, di quelle che lasciano sbigottiti.
Su queste prime parole di Andrea io ho fatto un sorriso. L’insuccesso è un argomento che da sempre mi riscalda l’anima, uno di quelli che rimbombano tra le mie corde e poi scivolano direttamente in uno spazio languido dove abitano insieme il coraggio e la paura. Istintivamente ho sentito il desiderio di approfondire, come per definire i confini dell’una e dell’altra sensazione: dar loro una forma per poi saperle agguantare.
-Puoi farmi qualche esempio?
-Come no, certo! Sai chi è Angela Koegh? È una maratoneta che nel 2001 partecipò a una corsa di fondo a Edmonton. Fu doppiata dalle avversarie 8 volte ed arrivò al traguardo con 40 minuti di ritardo. 40 minuti! Alla fine le si affiancò il giudice pregandola di andare più veloce, perché di lì a poco sarebbe iniziata un’altra gara. La cosa meravigliosa era che lei continuava a sorridere al pubblico e, seppur ultima, in quella corsa fissò comunque il suo record personale. Un altro esempio è quello di Giancarlo Alessandrelli, il portiere della Juventus. Era il sostituto di Zoff, fu ingaggiato quando Zoff aveva già 36 anni e lui, comprensibilmente, pensò che di lì a poco sarebbe stato il suo momento. Invece, come sappiamo, Dino Zoff ha giocato fino a 41 anni e Alessandrelli è stato quasi sempre in panchina. Entrò in campo una sola volta, per 20 minuti, e prese tre goal.
-Poveraccio! – ho esclamato io – ha tutta la mia solidarietà.
-Anche la mia, certo – ha ripreso Andrea – però vedi, questi grandi campioni della sconfitta hanno comunque da insegnarci qualcosa. Ti faccio capire che cosa intendo. Quando scrivevo il testo dello spettacolo, ho fatto delle indagini sul carattere di queste persone e ho scoperto che, in qualche modo, sono tutti dei giganti. Hanno saputo reagire al fallimento della loro impresa con una determinazione inimmaginabile. Perché vedi … gestire la vittoria riesce a tutti, risollevarsi da una caduta clamorosa invece è una cosa da supereroi. È lì che si misurano il temperamento, la forza d’animo e la personalità. Ti racconto un altro aneddoto. Ai giochi olimpici di Sydney, nel 2000, c’era un nuotatore della Guinea Equatoriale, Eric Moussambani, che partecipava alla gara di Stile Libero. Aveva imparato a nuotare 8 mesi prima e aveva ottenuto l’accesso ai giochi attraverso una wild card, cioè un permesso speciale per gli atleti provenienti da paesi in cui il nuoto era poco praticato. Doveva gareggiare con altri due nuotatori della stessa categoria, i quali furono però squalificati per falsa partenza e lui si trovò a competere da solo. Si buttò in vasca dopo il fischio d’inizio ma la sua preparazione si dimostrò assolutamente inadeguata, visto l’allenamento sommario che aveva ricevuto. Registrò il peggior tempo della storia e alla fine dichiarò che negli ultimi 15 metri aveva persino rischiato di affogare. Era la prima volta che lui nuotava in una vasca di 50 metri perché nel suo paese le vasche di 50 metri non c’erano! Fu soprannominato ‘l’anguilla’ e la sua performance diventò un tormentone della cronaca. Nonostante la figuraccia, Moussambani provò a presentarsi anche alle gare di Atene nel 2004 ma non fu preso per un problema sul permesso di soggiorno. Diventò in seguito maestro di nuoto per bambini e nel 2012 fu anche nominato allenatore della nazionale del suo paese. Ebbene, oggi la sua performance è considerata un esempio degli ideali del Comitato Olimpico Internazionale: con la sua tenacia ha dimostrato che tra i primi valori dello sport c’è la capacità di non arrendersi e di lottare fino in fondo.

Andrea parlava e io scrivevo appunti sul quaderno; ridevo (perché Andrea è un comico, non si resiste) e intanto riflettevo. I suoi racconti mi costringevano in qualche modo a rivedere l’idea di vittoria, mi mettevano sotto gli occhi due concetti apparentemente disgiunti e che adesso si trovavano concatenati nelle stesse vicende: il successo per sé e quello agli occhi degli altri.
Questa distinzione mi è parsa, in quel momento, un punto fondamentale del tema che stavamo trattando, uno dei molteplici centri dell’idea di trionfo.
Che differenza c’era tra il comportamento di questi atleti e quello di altri, che con sconfitte anche minori avevano comprensibilmente manifestato solo rabbia e sconforto?
Di primo acchito ho pensato al carattere, a una loro naturale capacità di gestire le emozioni in modo costruttivo. Questa risposta, che pure ritenevo istintivamente giusta, sembrava vagare tra le connessioni dei miei pensieri senza riempire tutto lo spazio: c’era qualcosa che scorreva di sottofondo, un’ombra che sentivo il bisogno di portare in primo piano e di mettere a fuoco.
Ho rivolto la domanda ad Andrea e ci siamo messi a dire, ciascuno, le parole che maggiormente si avvicinavano all’idea che volevamo afferrare. Alla fine è prevalso un concetto, l’immagine nitida e schietta di una realtà interiore divenuta improvvisamente centrale: il senso di sé.
Queste persone uscivano vittoriose dalla sconfitta perché non si erano discostate dall’idea che avevano di se stessi; avevano dato il meglio e questo, evidentemente, gli bastava. La sconfitta non li aveva peggiorati e loro conservavano, seppur con qualche ammaccatura, un ideale altissimo del loro progetto personale.
-Bisognerebbe scrivere questo proposito sulla parete della cucina – ho detto io – e poi guardarlo tutte le mattine mentre si fa colazione :
Cerca di somigliare all’immagine più bella che hai di te
-Bisognerebbe, sì – ha commentato Andrea sorridendo.
-Poi vedi – ha proseguito – c’è un’altro fattore che in questi casi diventa determinante. Io sono un comico e vedo la realtà attraverso il filtro della leggerezza. Nei casi di cui ti ho parlato, come in quelli che racconterò in teatro il 12 marzo, si nota una certa agilità di spirito che consente ai protagonisti di ridimensionare la sconfitta. La risata aiuta moltissimo a sdrammatizzare, è un rimedio naturale potentissimo. Non penserai mica che sappiamo ridere per caso… sghignazzare fa parte del nostro sistema immunitario! Viviamo in tempi molto competitivi, siamo costantemente chiamati a ostentare i nostri successi e le nostre capacità di riuscita. Il fallimento di un’impresa sembra una macchia indelebile che si allarga come una coperta fino a coprirci per intero. Invece è l’impresa che è fallita, mica noi! Sai che i primi 9 film di Hitchcock sono stati dei fiaschi? Quelli come lui sono detti fiori tardivi, hanno bisogno del fallimento per sbocciare. E dimmi … – ha aggiunto con tono scherzoso – te che cosa sei?
-Un fiore tardivo – ho risposto io.
Si è messo a ridere e abbiamo continuato a giocare con le parole.
-Sarebbe utile tener presente queste storie nei momenti di crisi – ho aggiunto – raccontarle a tutti. Ma… aspetta un attimo…ho avuto un’idea. Si potrebbe fare un incontro pubblico prima del tuo spettacolo, in modo da allargare questa conversazione a tutti quelli che vogliono partecipare. Che ne pensi?
-Penso che sia una cosa bella, condividere con gli altri fa sempre bene. E dove lo facciamo?
-Possiamo proporlo qui, alla biblioteca.
-Dai proviamo! Io ci sto.
-Allora facciamo così: se ci accolgono per un dibattito, invitiamo tanta gente e poi sbocciamo tutti insieme. Perché una cosa è sicura, non esiste nessuno che non sia mai caduto.
Prima di chiudere il quaderno, ho preso la penna e ho annotato un’ultima frase, a conclusione della pagina. Era un’affermazione a cui non avevo pensato in modo consapevole e che, evidentemente, aveva preso corpo nel corso della chiacchierata.
Dopo averla scritta l’ho guardata e ho aggiustato la rima, come faccio d’istinto quando intravedo un riflesso della verità:
Un’unica certezza matura con l’età,
si vince se si apprezza quello che si ha.
