20. Indietro nel tempo
Bruno Casiero cominciò a raccontare, partendo dal giorno in cui aveva avvicinato Franz per la prima volta. Anticipò quello che Egle e Bianca sospettavano da tempo, l’esistenza di un segreto che era passato di generazione in generazione lungo l’albero genealogico di Egle, fino a giungere a Franz.
– Potrà sembrarvi strano – chiarì subito l’uomo – ma noi Custodi della Verità non conosciamo l’arcano; abbiamo solo il compito di recapitarlo agli eredi e di seguirne le tracce affinché non si perda.
Su quella affermazione, le due ragazze trasalirono. Se nemmeno gli uomini che avevano davanti sapevano di cosa si trattasse, per loro non c’era speranza di sapere. Lo lasciarono proseguire, cercando di capire dove andasse a parare. Egle aveva chiesto il motivo per cui Franz non l’aveva resa partecipe e a quello volevano arrivare, mettere un punto fermo in quel mare di sotterfugi e finalmente cominciare a orientarsi.
Casiero riprese il discorso e tornò a quel giorno di tredici anni prima, quando Franz venne informato di essere speciale. Lui ed Egle erano allora poco più che adolescenti, orfani ormai da una decina d’anni e affidati all’ennesima famiglia in attesa di diventare maggiorenni. Erano due giovani schivi e un po’ scostanti, arrabbiati con la vita e uniti l’uno all’altro in un legame esclusivo, senza forme di apertura verso gli altri coetanei.
Nessuna amicizia, nessuna partecipazione alla vita del sestriere e nessuna frequentazione fuori dalle mura scolastiche: i due ragazzi vivevano in uno stato di sospensione perenne, ignari del futuro e degli sguardi silenziosi che seguivano i loro passi. Da anni erano tenuti sotto controllo dai Custodi della Verità, seguiti nelle traversie delle loro vite e monitorati a distanza. La Cerchia di loro sapeva tutto: gli alloggi che avevano cambiato con gli affidi, gli studi che avevano intrapreso e le abitudini personali; i guardiani presenziavano con discrezione tra le pieghe del loro destino in attesa di poter intervenire.
Per tutto il periodo della loro fanciullezza, dalla morte dei genitori fino ad allora, il segreto era rimasto senza un alfiere. Con il compimento del diciassettesimo anno di Franz, la Cerchia poteva finalmente completare il passaggio di consegne e ristabilire un depositario vivente.
Così avvenne quel giorno di aprile, quando Casiero compì la sua missione.
Franz frequentava allora la scuola d’Arte e amava dipingere vedute di Venezia; si posizionava con il cavalletto in prossimità dei canali e raffigurava con perizia i riflessi dell’acqua tra i ponti e i palazzi signorili. La pittura lo liberava dai pensieri e lo affrancava dal senso di diversità; col pennello riversava sulla tela le venature dei propri silenzi come gocce di un’interiorità sfumata, non ancora completamente compresa.
Da una settimana era impegnato a ritrarre uno scorcio del ponte di Rialto. La stagione del turismo non aveva ancora preso avvio e le strade erano punti di vista confortevoli, silenziose e ancora poco percorse.
Con i suoi capelli rossi e la sua aria trasandata, Franz completava a sua volta lo scenario di un quadro tutto italiano in cui si mescolavano storia, giovinezza e creatività. Nessuno, vedendolo dipingere, avrebbe pensato che fosse tanto solo.
Quel pomeriggio arrivò prima del solito, mosso dalla luce favorevole e dalla calma appena cominciata: un temporale si era abbattuto sulla città e il cielo si era aperto a un’atmosfera limpida, cosparsa di faville e di riflessi argentati.
Stava mescolando i colori sulla tavolozza quando Casiero gli si avvicinò di spalle.
– Ciao Franz – disse senza indugiare.
Il ragazzo si girò, colto di sorpresa.
Non aveva mai visto quell’uomo e rimase spiazzato.
– Ci conosciamo? – rispose dopo averlo guardato con cura.
– Diciamo che io ti conosco.
Franz pensò che fosse l’ennesimo operatore del centro affidi e fu irritato dalla gentilezza forzosa di quella voce.
– Scusi ma ora non posso – tirò corto – ho molto da fare.
Casiero si spinse nella richiesta e giocò la carta più convincente, senza giri di parole esibì un’argomentazione che non avrebbe potuto rimanere inascoltata.
– Devo dirti qualcosa che riguarda tua madre e tuo padre.
Franz si gelò. Non ascoltava qualcosa sui propri genitori da tanto tempo e il solo pensiero di sentirli nominare arrivò come una lancia in mezzo al petto, una freccia capace di diramare il fuoco attraverso i reticoli dei suoi centri nervosi, fino a farlo incendiare.
– Vieni – proseguì Casiero – sediamoci sulla panchina.
Il ragazzo posò il pennello e si avviò con l’uomo sul bordo del canale, verso la seduta di pietra.
– Cosa deve dirmi sui i miei genitori? – incalzò.
– È una questione molto delicata, stiamo aspettando questo momento da tanto tempo.
– Chi sta aspettando questo momento? E poi, per fare cosa?
– Un attimo – Casiero fece cenno di aspettare.
Aprì il borsello di pelle ed estrasse una busta da lettere, un plico chiuso e ingiallito che riportava due firme sul lembo anteriore. La passò a Franz:
– Qui c’è scritto tutto, aprila quando sei da solo. Nessuno l’ha letta e nessuno ha il diritto di farlo; i tuoi genitori l’hanno destinata a te, perché sei il fratello maggiore. Abbiamo dovuto aspettare che tu fossi abbastanza grande per potertela dare.
Franz lo guardava ammutolito. Aveva il volto pallido, incerto se trovarsi in un sogno o se vivere, invece, una realtà scombinata. Riconobbe le firme dei suoi genitori ed ebbe un fremito di incertezza. Quello che stava succedendo non aveva coerenza con la vita reale e appariva privo di senso, difficile da posizionare tra gli eventi della sua storia.
– Chi è lei? – chiese frastornato.
– Il mio nome è Bruno Casiero, sono uno degli uomini che vigila su di te e su tua sorella.
Poi mise una mano in tasca e tirò fuori un biglietto, già scritto.
– Questo è il mio numero – aggiunse – puoi chiamarmi quando vuoi.
Casiero si alzò e si allontanò. Traballava leggermente, zoppicando sul lato destro. Franz lo osservò in silenzio finché non lo vide scomparire tra i vicoli. Mise il biglietto in tasca e per qualche minuto rimase immobile, con la testa piena di incertezze.
Se quella lettera era uno scherzo, era certamente di cattivo gusto. Chi mai avrebbe potuto farglielo? Non era in confidenza con nessuno; nessuno, a parte i servizi sociali e le famiglie d’affido, conosceva la sua storia. E poi le firme erano reali, di questo era sicuro; le aveva viste sui documenti della casa e sulle carte di identità.
Si alzò, andò verso il cavalletto e prese l’astuccio degli attrezzi da disegno; estrasse un righello di metallo e tornò verso la panchina.
Appoggiò la busta sulla gamba accavallata e fece scorrere il righello sotto la punta, finché il piego si aprì.
Si fregò le mani sui jeans per asciugare il sudore, poi estrasse i fogli all’interno.
Li lesse tutto d’un fiato. Una, due, tre volte: arrivò in fondo e tornò da capo cercando di inquadrare il contenuto.
Dopo un’ora era ancora lì, sulla stessa panchina e nella medesima posizione. Continuava a guardare la lettera ma la testa frullava attorno al centro di uno spazio sconosciuto; i suoi pensieri erano dita su pareti senza attrito, destinate a cadere nel vuoto.
Verso il tramonto si avviò verso casa, entrò e si chiuse nella sua stanza. Disse che aveva mal di testa e non volle cenare, poi andò a letto senza farsi vedere.
Rimuginò fino alla mattina, quando faticosamente tornò alla vita di sempre.
Dopo qualche giorno, finalmente, prese il biglietto di Casiero e compose il numero.
– Franz? – l’uomo rispose alla chiamata.
Il ragazzo fu telegrafico, talmente conciso da sembrare distaccato.
– Accetto la missione, ma tenete fuori Egle.
– È tua sorella…prima o poi dovrà sapere.
– Ho detto di no. Egle deve vivere la sua vita con serenità, voglio che non abbia problemi e che sia spensierata. Mi occuperò io di tutto.
Quelle parole, che Franz aveva pronunciato tredici anni prima, rimbombarono nella stanza d’ospedale, mentre Casiero raccontava quanto era successo.
Egle si ricordava perfettamente di quel periodo, quando Franz disegnava scorci di Venezia. Aveva nella testa l’espressione del suo sguardo diffidente, il riflesso acceso dei capelli vermigli e il tono della voce, arrabbiato con tutti tranne che con lei.
Quella narrazione l’aveva portata indietro nel tempo, quando la sua vita era acerba e confusa. Allora avrebbe potuto capire, adesso invece era tardi per tutto.
– Quindi è stato lui a non volermi coinvolgere – affermò con tono di domanda.
Egle aveva bisogno di trovare la conferma di quanto aveva sentito, di avere almeno una certezza per poter respirare.
– Sì, l’ha fatto per proteggerti – rinsaldò Casiero.
– Ma i miei genitori hanno lasciato la lettera per lui, non per me – aveva bisogno di chiarire ogni cosa.
– Solo per una questione anagrafica, Franz era semplicemente più grande.
Quelle notizie riportarono il calore nel suo corpo. Ebbe la sensazione che il sangue riprendesse a scorrere, chiuso da chissà quanto in uno spazio improbabile della sua esistenza, inservibile e sprecato.
– Dopo che è successo?
Casiero riprese il suo racconto, modulando a fatica la voce roca.
– Per qualche tempo non è accaduto nulla. Franz non dava segni che ci consentissero di intervenire. Aveva appreso di avere una missione, ma non pareva sicuro di volerla accettare.
Divenne ancora più cupo e solitario. La lettera aveva rinvigorito il fuoco della mancanza, mentre la solitudine lo divorava dall’interno.
Prese a camminare per Venezia senza meta e senza vigore. La sua vitalità, già provata dal percorso burrascoso, ebbe un contraccolpo e deviò verso l’abbandono.
I quadri che dipingeva furono stravolti, completamente riempiti di numeri. Nessuno capiva che cosa stesse succedendo e i suoi turbamenti furono attribuiti alla mancanza dei genitori.
Cadde in uno stato di rinuncia da cui non si riprese mai, una condizione di apatia che lo rese remissivo, privato della linfa vitale.
Una volta diventato maggiorenne, si trasferì con Egle nella casa di famiglia, cadendo di fatto in un isolamento completo. Lasciò gli studi a prese a vivere di quel che aveva, senza progetti per il futuro. La solitudine, mescolata all’alcol e alle pillole per dormire, alimentò la convinzione di essere predestinato alla morte. La sorte dei suoi genitori si sarebbe riversata su di lui: il segreto che aveva ereditato era una sorta di maledizione da cui non poteva scappare. Per questo motivo, si intestardì nella certezza che Egle dovesse essere protetta, lasciata all’oscuro per impedirle di entrare in un’oscurità maggiore. Non sapere le avrebbe consentito di vivere una vita normale, l’incoscienza l’avrebbe salvata dalla rovina.
Casiero provò diverse volte a farlo ragionare, a convincerlo che la morte dei suoi genitori era dovuta a un incidente, in alcun modo collegato con quella faccenda. Tentò di persuaderlo a confidarsi con Egle, di fargli comprendere che il segreto non avrebbe invalidato i piani per la sua vita futura e che la Cerchia lo avrebbe sostenuto in ogni momento.
Ma Franz aveva una sensibilità da artista e le cose sulla sua pelle arrivavano in modo differente. La mancanza di affetto nel periodo dell’infanzia gli aveva tolto il senso di apertura e di successo, privandolo della speranza. Non ci fu verso di scuoterlo, la tristezza ormai era troppo densa: aveva la consistenza della depressione.
Nonostante fosse passato tanto tempo, in quella stanza di ospedale Casiero parlava con commozione, turbato dagli eventi che sarebbero accaduti negli anni a seguire e che allora non poteva sapere.
Egle si intromise nel racconto, interrompendo il flusso di parole.
– Una volta vi ho sentiti parlare. Ero tornata prima da lavoro e voi eravate in salotto, udii pronunciare il mio nome e vi ascoltai dietro la porta. Sentii delle parole, ma non ne colsi il significato. Nei giorni successivi feci a Franz un sacco di domande, ma lui non volle darmi spiegazioni. È stato quello il motivo per cui me ne sono andata, pensai che non si fidasse di me.
– Posso immaginare quali termini hai udito. Arca, eclissi, ventre del pesce…sono questi?
– Esattamente, e anche qualcosa simile a settimo fortino. Che cosa vogliono dire? Me lo chiedo da allora.
L’uomo fece una pausa, poi riprese a parlare. Aveva la voce calma e il tono basso, come se stesse entrando in una grotta.
– Vedi Egle…quando un segreto si tramanda, anche altre cose vengono trasmesse. Sono segni di riconoscimento che diventano riti, termini ripetuti che mantengono in vita il proposito di custodirlo e che rinforzano la scelta di far parte della storia. Una specie di proclamazione che si perpetua generazione dopo generazione, per non essere persa. Quelle che hai sentito, sono le parole che da secoli accompagnano il mistero della tua famiglia, solo gli eredi ne conoscono il significato profondo. Li sapeva Franz, e un giorno li saprai anche tu.
– Quando?
– Quando troveremo la lettera, solo allora varcherai la dimensione della conoscenza. La lettera è il mezzo che tua madre e tuo padre hanno scelto per informarvi, non c’è altro modo per scoprire la verità.
– Non avete la minima idea di dove Franz possa averla messa?
– Purtroppo, no. La sua scomparsa prematura ci ha lasciati impreparati. A differenza dei tuoi genitori, lui non aveva predisposto un modo per informarti. Era giovane e non voleva coinvolgerti, forse con la maturità avrebbe cambiato idea, chissà. Adesso la lettera è l’unico documento che possa spiegare di cosa si tratti e deve arrivare a te. Avrebbe dovuto essere questa la nostra funzione, garantire la successione del segreto, ma come vedi non siamo riusciti a onorarla. Non siamo stati in grado di fronteggiare una situazione tanto complessa e dolorosa e per questo motivo adesso siamo qui, a raccontare quello che sappiamo. L’abbiamo cercata in questi mesi, seguendo qualche traccia, ma non l’abbiamo trovata.
– Quale traccia?
– Per farti capire è necessario fare ancora un passo indietro e spiegarti quello che è successo prima che Franz morisse. Può dirtelo Alvise, anche lui ha avuto un ruolo nella storia. Vuoi che procediamo? Oppure vuoi continuare domani? Forse sei stanca e hai bisogno di riposare.
– Proseguiamo, voglio saperlo adesso.
– Va bene.
Casiero si fece di lato, lasciando spazio ad Alvise. L’uomo avanzò leggermente. Aveva il volto contratto e lo sguardo pieno di malinconia.
Si strinse nelle spalle e fece un colpo di tosse.
– È il mio momento – disse – non voglio più tacere.