21. L’utilità del bene
Alvise prese la parola e Bianca sentì un fremito attraversarla per intero.
Lo guardò e le parve più vecchio del solito, come se le vicende dell’ultimo periodo avessero appesantito i solchi sulla sua pelle, rendendoli arsi e spaccati. O forse era lei che, distratta dagli eventi, aveva smarrito la percezione del tempo. Gli ultimi mesi sembravano essere scorsi all’indietro, aggrovigliati sulla ricerca di un passato evasivo e piegati a metà, in un inverno senza primavera.
Da quando lei aveva cominciato a lavorare in bottega, Alvise aveva rappresentato la fermezza; una colonna a cui appoggiarsi quando il mare era grosso e la terra tremava, un basamento stabile come la saggezza e forte come la temperanza, abituato alla rinuncia e duro a morire.
Adesso, improvvisamente, il pilastro pareva crettato.
Il volto accigliato dava asilo a un’espressione di sconforto, la severità aveva perso tenuta lasciando entrare la rassegnazione.
L’uomo cominciò a parlare, partendo da quello che sentiva più importante. La sua voce, finalmente libera, cedeva sotto il peso del rammarico e tradiva l’amarezza di non aver fermato Franz, lasciandolo solo nella catastrofe.
– Non sono riuscito a impedirgli di andare – disse mentre si guardava le mani – volevo aiutarlo ma non ho saputo dargli quello che cercava.
Bianca lo interruppe.
– Che cosa cercava?
– Un padre, forse. Qualcuno che conoscesse il suo passato, con cui parlare apertamente.
Lei incalzò, risoluta. Non c’era più spazio per i sotterfugi, adesso era il momento di sapere.
– Da quanto tempo vi conoscevate?
Alvise fece una pausa prima di rispondere, cercando le parole per mettere insieme tutto quello che c’era da dire.
– Seguo Franz da sempre, sono uno dei Custodi della Verità. Il mio ruolo è quello di conservare le tracce della discendenza, detengo io l’elenco di tutti gli eredi che si sono succeduti nei secoli.
– Sono i miei parenti? – si intromise Egle.
– Sì Egle, lo sono.
La ragazza rimase in silenzio, ammutolita da quella notizia inaspettata. Per la prima volta nella vita, ebbe la certezza delle sue radici. Improvvisamente sentì di avere un gruppo sanguigno, un motivo d’esistere, un DNA motivato. L’idea di poter conoscere il nome dei suoi progenitori riscaldò le fondamenta della sua persona, consegnandole la penna per firmare la storia.
– Continua – disse soltanto.
– Vedete – riprese l’uomo guardando le ragazze – noi custodi non operiamo alla luce del sole. In tutto siamo sei, ma da tradizione soltanto tre di noi hanno a che fare con l’Erede, mentre gli altri rimangono nell’ombra. Entrano in gioco in caso di necessità, hanno un ruolo di supporto e deliberano sulle decisioni che competono alla Cerchia, ma non si fanno vedere.
Alvise indicò gli uomini che aveva accanto, poi proseguì:
-Tra noi quattro, loro tre comunicavano direttamente con Franz, mentre io dovevo stare in disparte insieme ad altri due guardiani che probabilmente non vedrete mai. Così abbiamo fatto per molti anni, fino a quando Franz ha cominciato a frequentare Bianca e tutto è cambiato. Sono qui, oggi, per un motivo preciso: ho tradito il mio giuramento palesandomi a lui e vi devo delle spiegazioni.
Bianca ed Egle si avvicinarono l’una all’altra, per cercare la forza di ascoltare ogni cosa.
– Perché l’hai fatto? – chiese Egle.
– Non sopportavo l’idea che Bianca venisse coinvolta nel dolore di Franz. Temevo che lo stato di angoscia in cui era caduto avrebbe compromesso il futuro di entrambi. Non è stata una decisione facile, ho cerato a lungo un modo per aiutarlo e alla fine ho ceduto all’idea di mostrargli chi ero. Non sono pentito di quella scelta: il ricordo del suo sguardo nel momento in cui mi sono rivelato è la mia unica consolazione. Ma non sono riuscito a fermarlo e niente può sollevarmi dall’idea di aver fallito.
– Come potevi fermarlo? È stato un incidente, non sapevi che sarebbe successo.
– Sapevo però che era turbato, e che non era in grado di arrampicare.
Alvise sospirò e per qualche attimo rimase in silenzio. Poi riprese il discorso.
– È giunto il momento che vi racconti come sono andate le cose.
Nei giorni prima dell’incidente, io e Franz ci siamo visti spesso. Bianca era impegnata con sua madre, ricoverata per un intervento, e Franz è passato diverse volte dal laboratorio.
– Vi siete visti quando io non c’ero – ripeté Bianca con un filo di voce. Aveva bisogno di inquadrare quanto era successo, di dare un contesto a quel legame e di figurarsi il modo in cui Franz, il suo Franz, aveva vissuto gli ultimi giorni in cui lei era assente.
Socchiuse gli occhi e tornò indietro nel tempo, a quel periodo d’estate. Rammentò le giornate lunghe, le ore passate all’ospedale e i colloqui con i medici per accertarsi che sua madre stesse bene. Lei aveva gestito la situazione e si era occupata di tutto, come aveva sempre fatto da quando suo padre se ne era andato. Scopriva, adesso, che in quei momenti era successo qualcos’altro, che un’altra vita era scorsa, sotterranea e impetuosa, per sbucare più avanti e ricongiungersi alla sua in un flusso che poi avrebbe travolto ogni cosa.
Alvise e Franz si erano incontrati in bottega, negli spazi in cui era solita stare e che le appartenevano di diritto, mentre lei era altrove.
Alvise annuì, poi riprese a parlare.
– L’ultima volta che l’ho visto, era ubriaco. Entrò nel laboratorio, trascinandosi a fatica. Aveva in mano la bottiglia di un superalcolico e urlava parole senza significato. Lo feci accomodare e lo misi seduto, ma sbraitava e piangeva come un bambino. Decisi di accompagnarlo a casa, chiusi il laboratorio in anticipo e misi il suo braccio intorno alla mia spalla. Camminammo così per un’ora, mentre lui continuava a farneticare. Pronunciava i vostri nomi, invocava Bianca di aiutarlo a ritrovare Egle, diceva che aveva sbagliato e che voleva liberarsi del suo segreto.
Quando arrivammo sotto casa, gli chiesi di darmi le chiavi per entrare. Salimmo le scale a fatica, aprii la porta dell’appartamento e nella concitazione infilai le chiavi nella mia tasca, per non lasciarlo cadere.
Le ritrovai qualche giorno dopo, e non ho più avuto modo di rendergliele.
– Per questo sei potuto entrare, oggi – commentò Egle – avevi le chiavi da allora.
– Proprio così.
– Dio mio, Alvise – aggiunse lei turbata.
La sua voce tradiva un’emozione intensa e inattesa, come se improvvisamente avesse compreso qualcosa, realizzando una coincidenza provvidenziale.
Si volsero tutti verso di lei: Alvise, Bianca e gli altri uomini.
– Non capisci – riprese la ragazza – se tu, allora, non avessi aiutato Franz, io stasera sarei morta.
Cadde il silenzio nella stanza. Quella concomitanza di vicende spalancò la porta delle convinzioni portando alla vista un orizzonte nuovo. Bianca sentì i muscoli contrarsi, bloccati da una scossa repentina. Per qualche attimo non respirò, finché il suo cuore prese a palpitare follemente, acceso dal fulmine della connessione.
Realizzò in quel momento che il bene era come un seme portato dal vento, capace di germogliare lontano dalla semina, e che l’utilità era un concetto troppo vasto per essere compreso, rivelato solo dall’amore.
Credeva di essere arrabbiata con Alvise per tutto ciò che le aveva nascosto; in pochi secondi si trovò dall’altra parte, a guardare una realtà diversa e nuova.
Le uscì di bocca un’unica parola che riempì tutto spazio.
– Grazie.
– Grazie – ripeté Egle tenendole la mano, mentre guardava gli occhi lucidi di Alvise. Cominciava ad aver chiaro quanto era successo, a mettere in fila gli eventi che l’avevano portata lì, con la flebo nel braccio e la fasciatura stretta al collo. Le mancava un ultimo tassello, la tessera che avrebbe reso completo il quadro di quella sera scombinata.
– Come facevi a sapere che avevo bisogno di aiuto?
– Ti ho seguita, ero dietro di te da quando hai salutato Bianca e l’altra amica alla stazione. Avevi un’andatura strana e l’espressione assente. Ti sei fermata a guardare l’acqua del canale e in quel momento è successo qualcosa: ho visto in te gli stessi tratti di Franz. È sorprendente quanto vi somigliate, aveva il tuo stesso modo di manifestare il dolore. Quando sei salita, mi sono appostato sotto l’appartamento. Ho visto la luce accendersi nelle stanze che affacciavano sulla strada, una dopo l’altra. Cercavo di immaginare cosa stessi facendo ma non stavo tranquillo, il tuo fare alterato mi aveva reso inquieto e sospettoso. Poi ho sentito un grido, un urlo pieno di angoscia e di disperazione. È stato in quel momento che ho deciso di intervenire; non volevo ripetere lo stesso errore che avevo fatto con Franz, trascurando dei segnali che invece avrei dovuto ascoltare. Ho suonato il campanello ma non hai risposto; avevo le chiavi e sono entrato, colto da un feroce presentimento. Quello che è successo dopo è facile da immaginare, ma l’unica cosa che conta è che adesso sei qui, fortunatamente salva.
Egle ripensò a quei momenti che Alvise aveva vissuto dall’esterno di casa sua. Ancora una volta, la sua vita sembrava legata a circostanze incontrollabili. Si chiese se non fosse così per tutti, se anche gli altri si muovessero tra fili che tiravano da una parte e dall’altra, stretti da legami invisibili che a volte serravano e a volte portavano salvezza, mossi da mani lontane.
Dopo un po’ riprese a parlare. C’erano ancora troppe cose che doveva capire e non voleva aspettare.
– Torniamo a Franz – disse – Hai detto che sapevi che sarebbe andato a rampicare.
– È così. Me lo disse lui proprio lui la sera in cui lo accompagnai nell’appartamento. Una volta entrati, lo feci stendere sul letto e gli tolsi le scarpe. Aveva bevuto molto e continuava a vaneggiare. Mescolava eventi passati e visioni del momento, alternando fantasie di angoscia a sprazzi di lucidità. Prese a parlare dei lacci che si sentiva addosso, affermò che il suo destino era quello di avere delle corde di protezione che gli impedivano di essere libero e che voleva sciogliere ogni cosa.
Disse che l’indomani avrebbe scalato la montagna, poi si corresse e menzionò un altro giorno, infine sostenne che ci sarebbe andato “dopo”, come se stesse per partire.
Io non gli detti peso, convinto che stesse delirando. Non era la prima volta che lo vedevo ubriaco, da qualche tempo usava l’alcol come consolazione; era una delle cose che mi preoccupavano di più quando pensavo alla sua relazione con Bianca.
– È successo anche a me di vederlo così – commentò lei – una sera all’inizio della nostra storia. Anche quella volta gridò il nome di Egle e rivelò di essere pentito, ricordo benissimo le sue parole.
Poi si rivolse ad Alvise:
– Perché sostieni di aver sbagliato?
– Sottovalutai quello che diceva, non pensai che sarebbe potuto andare ad arrampicare in quello stato emotivo. E poi l’accenno ai lacci di protezione… quel dettaglio per lui è stato fatale e il pensiero di averlo trascurato mi ha tolto la pace. Ma c’è qualcos’altro che dovete sapere. Dopo che lo aiutai a distendersi sul letto, gli domandai se si sentisse di rimanere solo. Rispose di sì, quindi gli misi il telefono sul comodino e feci per andare.
Prima di giungere alla porta mi chiamò indietro. Tornai nella stanza e gli chiesi se avesse bisogno di qualcosa.
Fece cenno di avvicinarmi; quello che disse fu talmente importante da farmi pensare, in seguito, che in qualche modo sapesse di essere vicino alla morte.
– Che cosa ti disse? – chiesero insieme Bianca ed Egle.
– Che la lettera era nel quadro, solo questo; poi cadde nel sonno.
– Dunque ti rivelò dove aveva messo la lettera dei nostri genitori? – domandò Egle.
– Pensai che intendesse esattamente quello, comunicarmi il posto in cui aveva nascosto la busta.
– Quale quadro intendeva?
– Non lo specificò, ma mi convinsi che potesse essere nel dipinto con i due cerchi, vista la quantità di riferimenti che conteneva. Quelle parole, in seguito, divennero l’unico indizio per venire a capo di una situazione ulteriormente complicata, oltre che molto dolorosa.
Dopo la morte di Franz, si pose il problema di individuare il successore. Noi guardiani della Verità non potevamo più aspettare: dovevamo informare Egle. Questa volta, però, non avevamo nulla che attestasse l’autenticità del nostro ruolo, né conoscevamo per intero la vicenda, visto che solo Franz era in possesso del segreto. L’unico modo per convincere Egle era mostrarle la lettera, che però non avevamo.
– Per questo avete portato via il quadro dall’appartamento?
– Sì, cercavamo la busta.
Bianca si fermò a pensare. In quella narrazione c’era qualcosa che non la convinceva, una discrepanza sui tempi che lasciava un vuoto da colmare.
– Dalla morte di Franz sono passati diversi mesi, perché non avete preso subito il quadro?
Alvise la guardò, sapendo di dover dare una spiegazione. Era arrivato il momento di esternare i pensieri più profondi, di esibire la vulnerabilità che aveva insinuato il dubbio tra gli uomini della Cerchia, portandoli a esitare.
– Eravamo sconvolti – cominciò – colpiti, come voi, dalla pena del lutto. Per la seconda volta, dall’inizio della nostra missione, una morte improvvisa aveva spezzato la catena della discendenza. Franz non si era ammazzato, lo sapevamo, ma nessuno poteva toglierci dalla testa che si fosse lasciato morire. Precipitammo nello sconforto, incapaci perfino di riunirci tra noi, piombati di colpo nella desolazione. Come potevamo continuare il mandato? Franz era stato parte delle nostre vite; l’avevamo visto nascere, crescere e diventare uomo; la sua morte arrivò come il presagio di un crollo da cui non ci saremmo potuti salvare. Con lui cadde ogni certezza, tutto parve essersi rimescolato in un disegno confuso e privo di senso. Ci interrogammo sulle nostre responsabilità, sul ruolo che coprivamo e sulla scelta di rimanere fedeli alla Cerchia; ci domandammo se fosse il caso di perpetuare una tradizione che, insieme alla conoscenza, aveva portato devastazione e dolore.
Poi, nel tempo, riprendemmo a confrontarci. Eravamo combattuti su come procedere, stretti in mezzo tra due fuochi. Da un lato la tentazione di lasciare ogni cosa, dall’altro il proposito di proseguire. Avevamo fatto un giuramento; venir meno all’impegno, per noi, sarebbe stato rovinoso quanto abbandonare. Pensammo a Egle e alla fiducia che ci era stata accordata dai suoi genitori. Se noi avessimo stabilito di abbandonare la causa, la tradizione si sarebbe interrotta per sempre. Avevamo il diritto di farlo? La decisione che prendemmo, alla fine, fu di cercare la lettera e coinvolgere Egle: la nostra scelta sarebbe dipesa dalla sua volontà.
Alvise si rivolse direttamente alla ragazza:
– Noi guardiani della verità siamo pronti a continuare. Ma rivolgiamo a te la stessa domanda. Non vogliamo più imporre la nostra presenza, né perpetuare una missione che potrebbe provocare dolore. Sta a te scegliere cosa fare. Se decidi di continuare, noi continueremo, finché avremo forza e respiro. Se decidi di rinunciare, noi scompariremo per sempre.
Egle si fermò a riflettere. Non si aspettava una richiesta così diretta, non credeva di avere tanta importanza in quella faccenda che per lei era ancora profondamente oscura.
– Avete trovato la lettera? – chiese prima di valutare.
– No, nel quadro non c’era.
– Quindi è stato tutto inutile…
– Non esattamente.
– In che senso?
– Nel senso che abbiamo trovato qualcos’altro.
Cadde il silenzio nella stanza. Di sottofondo, solo l’eco ovattato dei corridoi deserti e il suono regolare del monitoraggio cardiaco. La finestra incorniciava il cielo scuro della notte, l’intero ospedale pareva essersi scordato di loro. Tutto sembrava rarefatto, per qualche minuto sospeso nel vuoto. Poi Egle riprese la parola:
– Arriviamo in fondo a questa storia. Ditemi cosa avete trovato e aiutatemi a capire ogni cosa. Se i miei progenitori mi hanno condotto fino a qui, non sarò io a lasciare.