22. L’energia dell’esplosione
– Che cosa avete trovato nel quadro? – volle sapere Egle.
– Una scritta – rispose Alvise – posta nel retro, sotto la cornice.
Trasportata da quelle parole, Egle si ritrovò nello sfondo dell’incidente, tra gli eventi accaduti poche ore prima. Socchiuse gli occhi per cercare di ricordare, piombata d’un tratto tra le immagini confuse di quella sera allucinante. Nella sua testa si mescolavano visioni senza continuità, fatti sbiaditi come memorie lontane, schizzi di scene private del tempo. Poi d’improvviso un lampo a squarciare l’atmosfera rarefatta, un’apparizione nitida e precisa lacerò la nebbia della dimenticanza e riportò, nella sua testa, la successione degli avvenimenti.
Tutto era partito proprio da quella scritta, letta dopo aver staccato il dipinto dalla parete. Il significato della frase aveva acceso la rabbia e aveva portato alla luce un timore che negli ultimi anni aveva covato come brace sotto la cenere, alimentando nel silenzio l’energia dell’esplosione.
Com’è che diceva? Non rammentava le parole precise, solo la sensazione di caduta che le aveva generato e la disperazione in cui si era trovata immersa, tanto radicata da farla precipitare. Era qualcosa sul bene che le era stato negato, almeno così l’aveva interpretata, la conferma di un abbandono affettivo da parte della sua famiglia, manifestato per mano di Franz.
Sentirla nuovamente le avrebbe fatto male, ma non aveva altra strada da percorrere se non quella di ascoltare Alvise, per capire che cosa avesse da dire.
– L’ho vista anch’io – disse piano – ma non la ricordo esattamente.
Bianca la guardò stupita; aveva visto quel quadro mille volte, l’aveva tenuto tra le mani in bottega prima che venisse incorniciato e non aveva notato nulla. Forse Franz l’aveva aggiunta dopo o forse semplicemente non le aveva dato peso, rapita da ben altre sfumature.
– Quale scritta? – chiese senza aspettare.
– Una frase annotata a china – rispose l’uomo.
Poi la pronunciò, mentre tutti ascoltavano:
S’al mondo tu piacesti agli occhi miei, questo mi taccio
– Che cosa significa? – indagò Bianca.
Egle sentì l’imbarazzo di dover dare una risposta. Avrebbe dovuto spiegare che cosa era successo nell’appartamento, quando si era piegata alla forza dell’ira. Il dolore che sentiva dappertutto le rammentava la gravità della vicenda, violenta sul corpo oltre che sull’anima, spietata come una condanna senza facoltà di grazia.
Fortunatamente Alvise prese la parola prima di lei, esonerandola da ogni commento. Si rese conto, in quell’istante, di aver attribuito alla scritta un contenuto del tutto personale, una chiave di lettura che la poneva al centro di una negazione insopportabile, privata dell’idea di essere amata.
– Ecco – spiegò Alvise – non è una frase inventata da Franz.
– Ah no?
– No. Dopo che l’abbiamo trovata, abbiamo fatto qualche ricerca. Non c’è voluto molto a individuarne la provenienza.
– A chi appartiene?
– È una frase di Francesco Petrarca, la pronuncia Laura ne I trionfi.
– Una frase di Petrarca? – si stupirono Bianca ed Egle.
– Esattamente. Conoscete l’opera?
– In modo molto approssimativo – rispose Egle – io non la sento nominare dai tempi della scuola.
Bianca confermò:
– Anche io. A dire la verità non mi ricordavo nemmeno che l’avesse scritta.
– Può darsi che dobbiate ripassarla. Franz aveva detto che la lettera era nel quadro, invece ci ha fatto trovare un’espressione letteraria. Se l’ha inserita, avrà avuto un motivo; noi Custodi abbiamo già fatto qualche indagine, partendo proprio dal testo di Petrarca.
– Perché Laura pronuncia quella frase? Che cosa voleva dire?
– Lo fa nel Trionfo della morte. Dopo la sua scomparsa, appare in sogno a Francesco, simile all’aurora e ornata di gemme orientali; gli porge la mano e gli domanda se la riconosce. Lui si stupisce di quella indecisione, dando per certo che l’avrebbe riconosciuta in ogni modo. I due cominciano a discorrere, finché la conversazione entra nel merito del loro amore. È a quel punto che Francesco le domanda se il suo sentimento sia mai stato ricambiato. Lei dichiara di essere stata molto legata a lui e di aver mantenuto un comportamento distaccato per il loro buon nome. Poi, curiosamente, afferma la frase riportata dietro il quadro di Franz: S’al mondo tu piacesti agli occhi miei, questo mi taccio. Quasi a dire: l’unica cosa che non ti dirò mai è se ti ho amato anch’io, condannandolo così all’impossibilità di sapere. I due continuano a parlare, finché il capitolo volge al termine. Ma c’è un’altra cosa su cui noi Custodi abbiamo posto la nostra attenzione, non sappiamo se possa essere importante. Prima di terminare il suo discorso, Laura accenna a un ricordo indefinito e misterioso, un’ipotetica risposta ai versi di Francesco. Si può intravedere un riferimento a una poesia scomparsa, forse un testo perduto.
– Mamma mia – commentò Bianca – c’è da perderci la testa.
– A proposito di testa – aggiunse Egle con voce sofferente – la mia sta per scoppiare. Ho bisogno di un antidolorifico.
– Hai bisogno di riposo – acconsentì Alvise – è stata una giornata molto lunga. Adesso ti lasciamo dormire.
– Tornerete domattina?
– Certamente, saremo da te tutte le volte che vorrai.
Bianca le dette un bacio sulla fronte e le accarezzò i capelli.
– Buona notte amica mia. Non fare scherzi eh?
Egle, con gli occhi chiusi, sorrise.
– Farò del mio meglio.
Si avviarono tutti verso l’uscita. Prima di varcare la porta del reparto, Bianca si diresse verso l’infermeria.
– La ragazza nella stanza 38 ha mal di testa – disse all’operatore di turno – può darle un’occhiata?
– Vado subito a vedere.
Poi aggiunse:
– Stia tranquilla, la sua amica è in ottime mani.
– Grazie, anche per averci lasciato fino a quest’ora.
Lui le fece l’occhiolino:
– È una notte tranquilla, non avete dato noia a nessuno.
Così anche Bianca uscì dall’ospedale. L’aria era fredda, il cielo sereno. Si chiuse il giubbotto e raggiunse gli altri uomini.
– Domani teniamo chiuso – disse Alvise – vedi di riposare anche te.
Si guardarono, con l’espressione di chi si vede per la prima volta. Quello che era successo andava inquadrato, adattato al profilo delle loro vite, sagomato sugli eventi che improvvisamente avevano cambiato forma.
– A presto – rispose lei.
– A presto – ricambiarono gli uomini della Cerchia.
Dopo venti minuti, Bianca arrivò a casa. Si lavò le mani, si tolse velocemente i vestiti e si buttò sul letto. In pochi secondi il sonno prevalse sui pensieri, consentendo alla sua mente di rimanere sgombra per qualche ora.
Si svegliò dopo le otto, raggiunta della luce che passava dalle finestre. Si era scordata di chiuderle e non poté fare a meno di alzarsi.
Fece colazione distrattamente e si buttò sotto la doccia, poi si preparò per uscire.
Alle nove in punto era in libreria. La commessa la accolse con un gesto di saluto.
– Buon giorno, vorrei I trionfi di Petrarca.
– Un attimo solo, vedo se ce l’abbiamo.
Dopo una breve ricerca al computer, la donna andò nell’altra stanza. Tornò con il libro in mano e lo porse a Bianca.
– È stata fortunata, è l’ultima copia.
Bianca sorrise, pagò e tornò verso l’uscita.
Guardò il cielo, rannuvolato, e accelerò il passo per paura che cominciasse a piovere.
Davanti al portone sentì le prime gocce ed entrò, contenta di aver fatto in tempo.
Una volta in casa si tolse il giubbotto e si sfilò le scarpe, poi mise sul fuoco l’acqua per il tè. Da quando si era svegliata, aveva nella testa un unico pensiero: le parole scritte dietro al quadro potevano essere un indizio per trovare qualcos’altro, forse proprio la lettera da consegnare ad Egle. L’unico modo per scoprirlo era cercare nella direzione che Franz aveva indicato, seguire ogni traccia e perlustrare la scena che improvvisamente si era illuminata sotto i loro occhi. Avrebbe letto i Trionfi per trovare una prova, cercando tra le righe il senso di quell’annotazione.
– Avanti Franz – pensò prima di cominciare – guidami verso quello che c’è da sapere.
Stabilì un ordine per la ricerca e decise cominciare da un’introduzione all’opera, quindi prese il pc e digitò
Petrarca Trionfi
Apprese subito che si trattava di un poema allegorico, che Petrarca aveva lasciato inconcluso. Era un componimento articolato in sei parti dedicate ad altrettanti aspetti dell’animo umano, visti come tappe di un viaggio immaginario. Amore, pudicizia, morte, fama, tempo ed eternità segnavano, una dopo l’altra, le fasi di un percorso ideale che partiva dal peccato e giungeva alla redenzione, in un cammino di ascesa. Ciascun trionfo era l’affermazione di una forza capace di dominare l’uomo, battuta dal trionfo della forza successiva nello sviluppo di una storia
individuale e universale, appartenente all’intera umanità.
– Dunque la pudicizia per Petrarca vince sull’amore, la morte sulla pudicizia, la fama sulla morte e così via – disse Bianca tra sé – davvero una prospettiva singolare.
Pensò a quanto fossero cambiati i valori dal medioevo e a come quell’ordinamento risultasse difficile da spiegare nell’attualità, dove tutto era complesso e mescolato. Forse quegli aspetti andavano inquadrati come poteri da supereroi, armi per vincere il paradiso, gesti ideali di una Morra universale, conclusa solo dall’eternità.
Dopo aver inquadrato l’opera, un po’ a modo suo, Bianca prese il libro appena comprato e lo sfogliò fino a giungere al trionfo della morte. Scorse con gli occhi finché vide la frase riportata da Franz, quindi prese a leggere prima e dopo quel punto, cercando di capirne il contenuto. Era un testo in volgare italiano, articolato in terzine. Sicuramente meno difficile del latino ma decisamente poco immediato per chi era nato tanti secoli dopo.
Per fortuna c’erano le note: facilitavano la comprensione e consentivano una parafrasi tutto sommato accettabile, anche se i discorsi apparivano spesso tortuosi.
Bianca percepì l’importanza di leggerli prima così com’erano, lasciandosi trasportare dalle strofe, e solo dopo procedere a una trasposizione. Pensò che la poesia andasse rispettata, e che l’incedere del ritmo fosse un modo per guidare il cuore tramite l’orecchio, come una musica danzata a parole.
Andò avanti e indietro tra le terzine, nella difficoltà di rendere il brano minimamente suo. La prima cosa che notò, una volta resa fluida la lettura, fu un certo andirivieni di contenuti, un trattenersi per poi lasciare andare, la pratica di dire per negare.
– Viva son io, e tu se’ morto ancora… Né mai il tuo amor richiesi altro che’l modo….Questi ama, anzi arde, or si convien c’ha ciò provveggia… .Non è minor il duol perch’altri il prema… fur quasi uguali in noi fiamme amorose… Per finzion non cresce il ver né scema.
La sua immaginazione saliva e scendeva con le affermazioni di Laura, tra la ritrosia manifestata e la passione che invece usciva dalle righe. Aveva la sensazione di essere tirata da un elastico, scagliata da un estremo all’altro di un cerchio emotivo, spostata su un diametro dall’azione di tendere e da quella di allentare.
Dopo un po’, sconsolata, realizzò di essersi persa.
– È come cercare un ago in un pagliaio – disse tra sé – se anche qui dentro ci fosse qualcosa da scoprire, io non la troverò mai.
Guardò l’orologio e vide che erano le 11. La pioggia batteva sui vetri della cucina, il cielo era denso e scuro. Si chiese se Egle fosse sveglia e decise di mandarle un messaggio, quindi si alzò per andare a prendere lo smartphone che era rimasto nella borsa all’ingresso. Fece qualche passo e sentì freddo, come se un brivido la attraversasse dall’interno. Si fregò le mani sulle braccia incrociate e accese la luce del corridoio, ma in quel momento il contatore saltò e la stanza si riempì di buio.
Cercò di raggiungere la borsa col proposito di usare la torcia del cellulare, ma prima di arrivare fu raggiunta da un bagliore.
Un lampo, poi un tuono e ancora un altro lampo riempirono lo spazio d’ombre e sfumature, in un riflesso sfilacciato di colori. Le pareti comparvero per poi sparire nuovamente, la finestra sbatté, il pavimento sotto di lei divenne scuro.
Bianca si trovò lì, in quel momento esatto, in mezzo all’energia d’acqua e del fuoco.
Si fermò, immobile e rapita. Davanti a lei, illuminato a tratti, il quadro con l’arca che Franz le aveva regalato tanti mesi prima.
In un istante tutto fu chiaro, nudo, sfrontato. Ebbe la certezza del lampo, la forza del tuono, la purezza dell’acqua che lavava ogni cosa.
Arca dentro Arcanti, Arca dentro Arcuati, Arca dentro Petrarca. Non poteva essere una coincidenza, i cognomi che i progenitori di Egle avevano cambiato nei secoli contenevano la stessa parola, un’espressione d’identità che Franz aveva manifestato nei suoi quadri come un grido in cerca di salvezza. In un attimo tutto si compose, dando vita a uno scenario straordinario.
Bianca ebbe la certezza che la lettera si trovasse proprio lì, nel quadro davanti a lei. L’idea che Franz l’avesse nascosta a casa sua la coprì di tenerezza. Sentì le sue lunghe braccia avvolgerle le spalle, come un mantello di calore. E poi una voce attraversare le pareti, simile a un canto:
Però saper vorrei, amore mio, s’io son per tardi seguirti, o se per tempo.
Egli, già mosso disse:
Al creder mio, tu starai in terra senza me gran tempo.