16. Tutto è numero
– Lo vedi anche tu? – chiese Egle perplessa.
– Sì, lo vedo.
Bianca ed Egle fissavano il quadro di Franz, appeso davanti ai loro occhi.
– L’ultima volta non c’era, ricordi? Questa parete era vuota.
– Lo ricordo eccome! Eravamo venute qui per guardarlo con attenzione, pensando che il pesce nel dipinto potesse avere qualcosa a che fare con il segreto di tuo fratello. Era la nostra prima uscita insieme, mi avevi appena raccontato di aver sentito la conversazione di Franz con l’uomo dalla voce roca e di aver distinto la parola pesce all’interno del discorso. Significa che qualcuno si è introdotto qui; chiunque sia, ha le chiavi dell’appartamento.
– Mi chiedo perché l’abbia portato: vuole farci impazzire?
– Se è così, si tratta di una persona sadica e perversa.
Il pensiero di Bianca volò d’istinto ad Alvise. Aveva appena scoperto che l’uomo era coinvolto nella storia ma non riusciva a inquadrarlo in modo negativo; le informazioni che aveva trovato urtavano drasticamente con l’immagine che aveva di lui e non riusciva ad armonizzare tutte le voci.
– Almeno adesso possiamo osservarlo con cura. – disse guardando il quadro – In questo disegno c’è qualcosa che mi sfugge; ho la sensazione che da qualche parte, tra tutti questi numeri, ci sia un messaggio che non cogliamo.
– Aspetta un attimo, qui non ci sono solo numeri…
Era la prima volta che Egle vedeva quell’opera. Franz l’aveva realizzata dopo che lei se ne era andata, nel periodo in cui non avevano notizie l’uno dell’altro.
– Ci sono due orologi. Intendi questo?
– No, intendo che ci sono due cerchi. Ancora una volta cerchi!
– Hai ragione…Io continuavo a guardarlo con gli occhi della prima volta, a interpretarlo come allora, quando ero all’oscuro di tutto. Invece adesso abbiamo qualche informazione in più, anche se non è sufficiente per permetterci di capire. Tutto quello che troviamo, in qualche modo, fa riferimento al cerchio.
– Come la frase sulla foto che aveva in tasca mia madre: In circulo veritas.
– Dunque la verità è in questi cerchi che Franz ha dipinto? Possibile che volesse dire proprio questo?
– Non saprei…certo un riferimento c’è.
Egle fece una pausa, poi riprese a parlare. Aveva la voce incerta e il tono basso, come se stesse rivelando qualcosa di intimo e riposto.
– Sai Bianca, in tutta questa storia c’è qualcosa che mi fa stare male, un dolore che si aggiunge a quello per gli eventi che sono accaduti.
Bianca si fermò e le sfiorò il braccio con la mano, in segno di affetto. Lei proseguì.
– Vedi…da quello che emerge, Franz sapeva qualcosa sui nostri genitori. Mi chiedo se siano stati loro a informarlo, a condividere con lui il loro segreto. Forse gli hanno lasciato qualcosa di scritto, oppure hanno incaricato qualcuno di metterlo al corrente. Ecco…mi domando perché non abbiano coinvolto anche me. Mi sono detta che forse all’inizio ero troppo piccola, ma mio Fratello aveva solo due anni in più, non poteva essere una questione di età.
E poi lui… perché non mi ha detto nulla quando siamo cresciuti? Può darsi che non si fidasse, che mi vedesse inaffidabile o incapace di gestire l’informazione che aveva? Temeva che la rivelassi? Queste domande si insinuano nei miei pensieri e non mi danno pace. Siamo sempre stati soli, una famiglia senza parenti. Adesso mi sento ancora più isolata, esclusa dal nucleo dei mei stessi familiari. Mi ripeto che eravamo uniti, che i nostri genitori ci trattavano allo stesso modo, ma davanti a me rimane un dato di fatto inconfutabile: loro tre sapevano e io invece no.
Egle aveva gli occhi lucidi; Bianca la abbracciò.
– Capisco cosa vuoi dire. Franz non ha parlato nemmeno con me, ma sono sicura che mi volesse bene.
Poi le passò una mano sui capelli, con dolcezza. Egle sentì in quel gesto la cura di sua madre: lo sguardo libero dai problemi, il senso di fiducia che alleggeriva ogni pena e si donava gratis, bastevole di tutto. Fu l’aria all’uscita della grotta e l’acqua in fondo alle radici, la certezza del giusto insieme al senso di stare.
– Non è facile – proseguì Bianca – ma dobbiamo aspettare. Alla fine, quando tutto sarà chiaro, potremo avere un’idea nostra e giudicare le scelte che sono state fatte. Fino ad allora possiamo solo sospendere il giudizio e cercare di non trarre conclusioni. Concentriamoci su quello che troviamo, presto risponderemo a ogni domanda.
Egle la abbracciò.
– Grazie, non so come farei senza di te.
Si scambiarono uno sguardo d’intesa e lentamente tornarono nel presente.
– Dunque – riprese Bianca – siamo venute qui per le scatole con gli oggetti dei vostri genitori.
– Sì, vieni.
Egle fece strada e dalla cucina entrarono nel ripostiglio: un ambiente piccolo e pieno di roba disposta su scaffali che arrivavano al soffitto.
– Sono lassù – indicò. Poi prese lo scaleo.
Salì fino in cima, afferrò il primo scatolone e lo passò a Bianca. Fece la stessa cosa con gli altri e scese.
Portarono tutto in cucina e appoggiarono il primo sul tavolo.
– Vado? – chiese Bianca prima di sollevare il nastro adesivo.
– Vai.
Bianca tirò via il nastro e aprì lo scatolone. Poi lasciò spazio ad Egle, in modo che potesse guardarci dentro per prima.
La ragazza infilò le mani ed estrasse il contenuto. Erano oggetti di piccole dimensioni, incartati con fogli di giornale e disposti in modo casuale, l’uno sull’altro senza apparente organizzazione.
Li tirò fuori uno alla volta, mentre lentamente frugava nella memoria.
Il primo ad uscire fu un pagliaccio di vetro che non aveva mai smesso di sorridere.
Lo accarezzò, con lo sguardo che correva nel tempo.
– Era sul cassettone della loro camera da letto – disse piano – non potevo toccarlo perché era fragile. Mi piacevano i colori, lo prendevo in mano di nascosto e stavo attenta a rimetterlo nella stessa posizione. Una volta la mamma mi vide, avevo paura che si arrabbiasse ma scoppiò a ridere.
Egle parlava un dialogo tra sé, con la voce nei bordi dell’infanzia.
Liberava parole rotte, impigliate nei ricordi e strappate da un colpo senza preavviso; resti scomposti di un’età amputata, oltrepassata senza essere stata vissuta.
Mise ancora le mani dentro e prese un orologio da taschino.
– La collezione di papà. Ci teneva così tanto…
Poi afferrò un porta gioie e dei soprammobili in porcellana, statuette che avevano comprato durante le vacanze insieme.
Li guardò uno a uno, cercando di rammentarne la provenienza. Non c’era nessuno a cui potesse chiedere conferma, nessuno con cui confrontarsi sugli eventi passati. Egle si sentì abbandonata in quel cammino all’indietro, così sola da domandarsi se veramente l’avesse mai percorso in avanti. La sua memoria, senza condivisione, sembrava un manichino con i fili allentati: si accasciava sotto il peso della propria struttura e perdeva l’ossatura delle radici.
Quando ebbe estratto tutto, si asciugò la fronte.
– Prendiamo l’altra scatola – disse con coraggio – qui non c’è niente che possa aiutarci.
Rimisero gli oggetti al loro posto e aprirono il secondo contenitore.
La prima cosa che trovarono fu un album di fotografie. Sfogliarono le pagine e le guardarono una ad una. Quasi tutti gli scatti ritraevano Egle e Franz da bambini, con le loro corporature magre, i vestiti leggermente in avanzo e il colorito diafano. Si tenevano per mano, nel parco o durante le gite della domenica, a memoria di una compattezza non ancora scalfita.
All’improvviso, infilata tra le pagine, comparve una foto diversa dalle altre.
Egle la prese in mano, colpita dalla sua singolarità.
– E questa, che cos’è?
Bianca avvicinò la faccia sull’immagine.
Era la fotografia di un armadietto, simile a una teca da museo, in cui erano visibili dei documenti.
– Sembra che in questi fogli ci sia scritto qualcosa ma non si distinguono le parole – commentò Egle.
Provarono a fotografarla con lo smartphone e a portare la scritta in primo piano, ma con lo zoom l’immagine si sgranava e perdeva nitidezza.
– Ci vorrebbe una lente.
– Aspetta, dovrebbe essere qui, da qualche parte.
Egle uscì dalla stanza e dopo qualche minuto tornò con lo strumento per ingrandire.
Appoggiarono la foto sul tavolo, sotto la luce, e vi posizionarono sopra il cristallo.
Con qualche fatica riuscirono a decifrare il trafiletto:
Il sottoscritto dichiara di aver trovato nel Codice, il 12 Maggio 1895, fogli numerati da antica mano, più al principio due altri fogli con un indice scritto dalla stessa mano. Franz Ehrle
– Chissà chi era, e a quali fogli si riferisce… Saranno forse quelli accanto?
Egle spostò la lente, fino a ingrandire il documento vicino.
– Ci sono dei numeri…Sette, quattordici…poi c’è ventidue e quarantaquattro. E questo che cos’è? Ventidue sbarra sette.
– Potrebbe essere una frazione: ventidue settimi.
– Una frazione? Allora è qualcosa che riguarda la matematica.
– Non è detto. Aspetta… su quest’altro foglio c’è una scritta. Sembra qualcosa con una data, riesci a vedere?
– È molto sgranata. In…cir… circulo…
In circulo veritas
– In circulo veritas, ancora!
– Un’altra volta quella frase.
– E la data, che data è?
– Prendo un foglietto, così trascriviamo ogni carattere e poi la leggiamo tutta insieme.
Mccc xxxv, die XII Februarij
Bianca, che era avvezza a maneggiare tele d’arte antica, non ebbe difficoltà a darle un significato:
1335, giorno 12 Febbraio
– 1335? – chiese Egle stupita – Tutti questi numeri sono stati scritti nel 1335?
– Pare proprio così. Non c’è alcuna indicazione su dove si trovi la teca, potrebbe essere dentro un museo o in una biblioteca. Certo è che ci riguarda, la scritta sopra non può essere un caso.
– Credo anch’io. Direi che siamo sulla strada giusta.
– Come facciamo a interpretare i numeri? Potrebbero voler dire qualsiasi cosa.
– Sarà qualcosa che è successa nel 1335? E Franz, cosa c’entra in tutto questo? È un periodo così lontano da noi … io il quattordicesimo secolo l’ho sentito nominare solo a scuola!
– Andiamo a vedere che cosa è successo, magari ci viene qualche idea.
Bianca prese lo smartphone e digitò ‘ XIV secolo’.
Trovarono, come già sapevano, che era un periodo del basso medioevo, caratterizzato da una crisi di ampia portata e da un’epidemia di peste, diffusa in Europa a partire dal 1346.
– Almeno sappiamo che la peste non c’entra – commentò Egle – la nostra data è precedente!
– Bella consolazione – ribatté Bianca con un filo di sarcasmo.
– Cerchiamo i personaggi e gli eventi di quel periodo, scorri sotto.
Bianca mosse il dito sullo schermo fino a inquadrare la lista dei fatti e dei nomi più importanti.
Lessero che mentre Filippo il Bello spostava il papato ad Avignone, Dante componeva la Commedia e Giotto dipingeva gli affreschi nella Basilica Inferiore di Assisi. Successivamente, Chaucer scriveva i racconti di Canterbury e venivano fondate le Università di Roma e di Firenze. Poi ci furono la peste e i movimenti di protesta, scatenati come sempre dalla fame.
Si trovarono a ripassare un secolo intero sullo schermo dello Smarphone, un susseguirsi di avvenimenti che avevano forgiato il cammino dell’uomo e che di colpo riguardavano anche loro. A Bianca sembrò di tornare in classe, anche se ora nessuno le imponeva di studiare. Per Egle fu come entrare nella storia, quella di tutti e quella solo sua, che in tempi così lontani aveva lasciato un seme adesso pronto a germogliare. Si chiese se quel seme, gettato a terra nel basso medioevo, fosse più o meno grande di un ago in un pagliaio. Ma la terra era la stessa che aveva sotto i piedi e lei provava l’irragionevole sentore di poterlo riconoscere.
Doveva capire che cosa indicassero quei numeri e che cosa avessero a che fare col cerchio. Forse c’era un disco, un anello, un circuito da percorrere per comprendere quanto era successo; forse la strada sarebbe tornata al punto di partenza, quando tutto sembrava facile e lei era ancora felice.
Quanto all’ago, per Franz avrebbe rinvenuto anche quello. Lo immaginò come un oggetto minuscolo e appuntito che passava da una parte all’altra dei tessuti, tenendo insieme coperture sfilacciate e brandelli di storia. Univa il sette al ventidue, il quattordici al quarantaquattro, allacciava la frazione e rivelava chissà quale rapporto sul cammino circolare. L’avrebbe trovato, in mezzo alla paglia o anche in fondo al mare, e poi avrebbe ricucito ogni cosa.