28. Il cerchio si chiude

Ester guidò Bianca ed Egle dentro al palazzo delle Procuratie Nuove, a fianco del Museo Correr.

– Avete una meta precisa qui dentro? – chiese la donna.

– In effetti, no.

Ancora una volta, Bianca ed Egle si trovavano nella condizione di perlustrare degli ambienti oscuri, indagare su luoghi colmi di storia nel tentativo di scoprire qualche indizio che le conducesse a un oggetto sconosciuto, di cui ignoravano l’importanza. Adesso sapevano che era un manoscritto ed erano certe che fosse destinato a Egle, visto che Franz non c’era più, ma non riuscivano a immaginare dove potesse essere stato trafugato.  

– Io un’idea ce l’avrei – Ester ruppe l’indugio.

Le ragazze la guardarono con stupore. Possibile che sapesse dove condurle? Ester le aveva attese fuori dalla Sala Bessarione quando avevano sfogliato gli appunti rinvenuti nella libreria, non sapeva della discendenza di Egle da Petrarca e non poteva sospettare quale tipo di ricerca avessero messo in atto fin dall’inizio della loro esplorazione. Come poteva, adesso, guidarle verso il nuovo nascondiglio?

Lei rispose al loro sguardo, prima che formulassero esplicitamente la domanda.

– Non sono sicura che sia il posto giusto, ma spiegherebbe qualcosa che è successo tanti anni fa.

– A cosa ti riferisci?

–  Si tratta di un episodio di poco conto, che tuttavia mi è rimasto in mente da allora. Oggi potrebbe trovare una spiegazione.

Fece una piccola pausa e poi prese a raccontare.

– Dopo un po’ che eravamo colleghe, io e Lidia entrammo in confidenza. Le presentai la mia famiglia e lei fece altrettanto con la sua, come era normale in certi rapporti di stima e d’amicizia. Fu in quel periodo che incontrai te e tuo fratello – disse rivolgendosi a Egle – adesso che ti vedo riconosco le fattezze di allora. Accadde una volta che i miei figli venissero a trovarmi sul posto di lavoro, erano in visita a Venezia con i nonni e si fermarono per un saluto. Insistettero per vedere Lidia, che con loro era sempre gioviale e spiritosa, così andammo a cercarla. Chiedendo in giro per la biblioteca, ci fu detto che era andata all’archivio di Stato a portare la corrispondenza, quindi ci incamminammo verso il palazzo dell’Archivio, proprio dove siamo adesso.

Quando vide i bimbi, Lidia corse loro in contro e li abbracciò; poi, con il suo fare da affabulatrice, disse che li avrebbe condotti in un luogo speciale. Ci addentrammo per le scale e giungemmo, attraverso una fitta rete di corridoi, al sottotetto, una specie di soffitta posta in cima all’edificio da cui si poteva ammirare un’insolita vista sui tetti della città. I bimbi furono entusiasti di esplorare un ambiente tanto misterioso; io mi chiesi invece per quale motivo lei si trovasse a frequentarlo e perché avesse con sé le chiavi. Glielo domandai sul momento, ma fornì una risposta evasiva. Mi ripromisi di tornare sull’argomento ma non ebbi mai il modo di farlo, poco dopo venne a mancare.

– Da dove si accede al sottotetto? – chiese Bianca.

– Dai locali del deposito, se volete vi accompagno.

Si incamminarono lungo il corridoio e passarono da una stanza all’altra attraverso un groviglio di scale e pianerottoli, finché giunsero a una piccola porta ricavata nel muro, senza stipite né rivestimento.

– Un tempo ci volevano le chiavi – disse Ester – poi misero una catena ma fu tolta una decina di anni fa, quando i vecchi impianti di aerazione vennero dismessi. Da allora basta una spallata.

Dette una spinta e l’uscio si aprì, portando alla vista un grande spazio quasi completamente vuoto, illuminato dalle luci esterne della piazza.

Era un ambiente mansardato, con travi a vista sul soffitto e piccole finestre sui lati.

L’odore di chiuso si mescolava a quello della polvere; il rumore dell’aria nelle condotte offriva l’idea di un posto disabitato, sospeso in uno stato di attesa perenne.

Bianca ed Egle entrarono; Ester fece loro un cenno e rimase fuori, socchiudendo la porta.

Una volta dentro, le ragazze si guardarono intorno.

– Qui non c’è nulla – osservò Egle – non ci sono mobili né contenitori di alcun tipo.

– Potrebbero averli tolti, sono passati tanti anni.

– Tutto è possibile, ma mi pare strano. Mia madre non avrebbe esposto dei documenti così preziosi all’eventualità di un trasloco. Certo, può darsi che non abbia avuto il tempo di spostarli.

– No, no…hai ragione. Aveva un intelletto fine, i suoi nascondigli erano scelti con cura.

Guardarono vicino alle tubature, poi passarono alle pareti sperando di individuare qualche sportello nascosto.

Il campanile batté quattro rintocchi e sentirono, sottopelle, lo scompiglio dell’agitazione. Il tempo passava e sapevano bene che quella era l’unica carta del loro mazzo; non avrebbero mai avuto un’altra possibilità per accedere al sottotetto senza essere viste.

– Sforziamoci, quando arriva l’alba dobbiamo essere fuori.

Bianca appoggiò la schiena al muro, sconsolata.

– Ma qui non c’è niente, solo polvere e travi!

– Che hai detto? – Egle si drizzò di colpo.

Bianca la guardò, senza capire.

– Solo polvere e travi – ripeté.

Egle prese a camminare nella stanza, fissando le capriate. Andava avanti e indietro col viso rivolto verso l’alto, colta da un pensiero fulmineo.

– Metti le cose dove sembra che non ci siano – diceva tra sé – nessuno guarda nei posti vuoti.

– Vuoi spiegare anche a me? –  si intromise Bianca, spazientita.

– Mi sono ricordata di un gioco che facevamo da piccoli, quando eravamo a casa tutti e quattro, nei giorni di pioggia. Uno di noi nascondeva un oggetto e gli altri dovevano trovarlo. Mia madre ripeteva sempre il suo trucco, diceva di metterlo “dietro l’evidenza”, in posti visibili che sembravano privi di contenuto.

– Non è difficile qui – commentò Bianca con sarcasmo – è tutto vuoto.

– Quasi tutto. Guarda quanti spazi ci sono sulle travi!

Bianca alzò gli occhi e cominciò a perlustrare il soffitto di legno, una successione di zone incavate, a forma triangolare, che fornivano alla realtà un aspetto ordinato. Era un ricamo modulare ripetuto a tal punto da lasciar supporre che gli spazi vuoti fossero vuoti fino in fondo, senza bisogno di andare a guardare.

Si posizionarono ai due lati della stanza e cominciarono a perlustrare il contorno di tutte le superfici.

Improvvisamente, l’attenzione di Egle fu attratta da qualcosa.

Su una trave, poco più in alto del suo braccio allungato, una scatola di legno lasciava intravedere le sue forme, confondendosi col colore dell’impalcatura.

– È qui! – annunciò con certezza. La sua voce tremò e il cuore prese a batterle veloce dentro al petto.

Bianca corse a vedere.

– Fammi scalino con le mani.

Bianca incrociò le dita fino ai palmi, poi si abbassò e fece salire l’amica.

In un attimo, Egle afferrò il recipiente e riscese a terra.

Per qualche secondo rimasero ferme, con lo sguardo fisso sul contenitore, incredule di averlo trovato. Negli ultimi mesi non avevano fatto altro che pensare a quel mistero, le loro energie erano state fagocitate dalla ricerca di un filo conduttore che desse senso al comportamento di Franz e che riportasse l’equilibrio tra i pensieri di Egle, da troppo tempo piegati su sé stessi. Adesso, finalmente, la svolta. Avevano tra le mani la spiegazione di ogni silenzio, l’inizio di ogni dubbio, la causa di ogni dolore.

Andarono vicino alla finestra e si misero sedute in terra; Egle teneva il bauletto sulle gambe mentre passava le dita sulla parte superiore, coperta dalla polvere e da uno strato di grasso, residuo del vecchio impianto di aerazione.

– La storia della mia famiglia è incastrata qui dentro – disse prima di procedere.

Sollevò il coperchio ed estrasse due scatole di metallo.

Ne passò una a Bianca e aprì quella che le era rimasta tra le mani. All’interno, erano sistemati dei fogli antichi rilegati in modo artigianale, allacciati da una corda annodata sulla parte anteriore. Erano evidentemente degli scritti di grande valore, riposti con cura.

– Hai ancora i guanti di lattice che ci ha dato Ester?

– Si, li ho messi in tasca.

– Indossiamoli.

Tirarono fuori le pagine e trovarono, come annunciato negli appunti della mamma di Egle, dei documenti autografi che testimoniavano il vasto Progetto di Petrarca. Attraverso una sommaria traduzione dal latino, compresero che si trattava della descrizione di un disegno esoterico, concepito per essere taciuto alle masse e tramandato occultamente mediante un diretto passaggio di consegne lungo la stirpe del Poeta.

Con quei documenti, il Canzoniere appariva spogliato della sua sovrastruttura terrena, liberato dalla ricerca dell’amore per Laura e mostrato, finalmente, nel suo intento divino: rivelare il valore di Pi greco.

Allegate agli atti, tenute insieme da un laccio, vi erano le lettere di corrispondenza tra Petrarca e il matematico Domenico Parisiense, grazie al quale Il Poeta era venuto a contatto con certi risultati sulle approssimazioni di Pi greco e sull’uso della virgola, che circolavano segretamente nei circoli parigini.

Dopo aver compreso il significato, per quanto fosse un’interpretazione grossolana, Bianca ed Egle riposero i fogli nella scatola di metallo e passarono al secondo contenitore, bramose di divorare ogni cosa.

Qui, la loro espressione ebbe un contraccolpo.

Appoggiato sopra altri fogli rilegati, incastrato sotto il nodo di una corda, uno schizzo a china esibiva il riferimento a qualcosa che avevano visto molte volte, senza dargli un significato preciso.

– I due cerchi del quadro di Franz – pronunciò Egle, stupita.

– Mio Dio Egle, questo significa che Franz è arrivato qui, ha visto i documenti e ha riposto ogni cosa. Come avrà fatto a trovare tutto da solo? Certamente non è andato da Ester, ce l’avrebbe detto.

– Forse conosceva qualcuno all’interno della biblioteca, oppure si è ricordato qualcosa che aveva sentito da piccolo. Potrebbe essere arrivato alle nostre conclusioni partendo da elementi diversi … non lo sapremo mai. L’unico dato certo è che ha preso le distanze dall’intera faccenda, altrimenti non avrebbe rimesso la scatola sulla trave. Ma cosa vorrà dire questo disegno? Proprio su quel quadro trovai la frase di Petrarca, prima dell’incidente.

– Se ben ricordo, non era una frase del Canzoniere.

– È vero, era tratta dai Trionfi, la pronunciava Laura in un’apparizione al poeta, la ricordo benissimo: S’al mondo tu piacesti agli occhi miei, questo mi taccio.

– Ma Laura non rappresenta Pi greco?

– E Pi greco rappresenta il divino.

– Diventa una dichiarazione di indifferenza da parte del Creatore, verso il bisogno dell’uomo di essere amato.

Girarono il foglio e trovarono degli appunti scritti a penna.

– È la grafia di Franz.

– Sì, lo è.

Vesica piscis è lo spazio di intersezione tra due cerchi,

 la zona comune tra due dimensioni diverse,

 il passaggio dalla materia allo spirito.

Sotto, il disegno stilizzato di un pesce, simile a quello rappresentato dai primi cristiani per riconoscersi tra loro. Poi ancora una scritta:

Nel ventre del pesce l’uomo è solo, abbandonato.

La poesia è conforto, grido, disperata connessione.

Egle sentì un brivido scenderle addosso.

– Il ventre del pesce – pronunciò con un filo di voce – è una delle parole che sentii pronunciare da Casiero, quella volta che era in salotto con Franz. Lui ha detto di averla ripetuta come un rito, una specie di cerimoniale che doveva riavvicinare Franz alla missione. Ma il significato era questo e Franz ne era a conoscenza.

– Quale altra parola hai sentito?

–  Un’espressione strana, simile a “settimo fortino”.

– Se tanto mi dà tanto, stiamo per scoprire anche quella. Franz ha lasciato questi appunti per te.

– Non è possibile, non mi ha mai coinvolta in questa storia.

– Non ha neanche gettato via la scatola, però. Probabilmente era molto combattuto: dopo che ha saputo di Ottavia, poteva gettare ogni cosa e abbandonare l’impresa per sempre, invece ha continuato a cercare ed è arrivato fino a qui. Ha seguito l’esempio di vostra madre, che pure lo aveva deluso; ha lasciato questi riferimenti per spiegare quello che aveva compreso. Probabilmente pensava di tornare qui, prima o poi, e intanto ha messo un punto fermo.

Egle rimase interdetta, senza parole per controbattere.

Passarono all’ultima nota, che riportava ancora i due cerchi. Questa volta, erano corredati da alcune scritte, disposte nei rispettivi centri e su punti equidistanti della prima circonferenza.

– Sono i trionfi di Petrarca: amore, pudicizia, morte, fama, tempo ed eternità.

A lato, una specifica:

I cerchi ruotano l’uno intorno all’altro.

Il primo centro è l’eternità,

l’altro è l’amore.

I trionfi si susseguono in un circuito circolare,

vincono l’uno sull’altro ma ritornano

in un confronto senza fine.

Solo l’eterno copre tutti i punti

imperniato sull’amore

Poi, a, conclusione:

I trionfi non sono sei, ma sette.

Il primo e l’ultimo proclamano la stessa forza.

E il cerchio si chiude.

Egle rilesse più volte, a voce alta, mentre Bianca cercava di capire.

Settimo fortino sta per settimo trionfo – disse poi – è la parola anagrammata.

– Quindi Petrarca avrebbe lasciato un settimo capitolo inedito, in aggiunta ai sei già noti.

– Credo che voglia dire esattamente questo, e di nuovo propone la forza dell’amore che era il primo trionfo trattato. In questo modo il ciclo si completa, come è scritto sopra.

– L’amore dunque è il modo con cui l’uomo può accogliere l’eternità. L’unico mezzo per connettersi alle leggi del mondo e intravedere il divino.

– Che cosa intenderà quando dice che i due cerchi ruotano l’uno intorno all’altro?

– Credo che si riferisca a una rotazione di tipo geometrico, utilizzata poi come metafora. Il punto dell’eternità, centro del secondo cerchio, gira sulla prima circonferenza e va a coprire gli altri punti.

 Bianca fece una pausa.

– Ora, se abbiamo capito bene, questo capitolo segreto è nella scatola che hai tra le mani.

Egle abbassò lo sguardo verso il contenitore e fece un respiro profondo.

– Comunque vada, siamo arrivate in fondo.

Poi estrasse i fogli contenuti.

Non ci fu bisogno di alcun commento, sotto i loro occhi comparve il titolo di un manoscritto, che rendeva inequivocabile il contenuto.

Settimo trionfo. L’amore

In fondo, su ogni foglio, la firma di Petrarca: Franciscus.

Stavano per esultare, compiaciute per la loro sagacia inaspettata, quando il campanile batté sei rintocchi.

– Dobbiamo andare.

– Che facciamo con la scatola?

– La prendiamo, è nostra.

Chiusero tutto con cura ed uscirono dalla soffitta.

In fondo alle scale, Ester aspettava paziente.

– Non vi chiedo che cosa avete trovato – disse guardando il contenitore – né dove fosse riposto. Quella soffitta era vuota prima che voi entraste e vuota rimane adesso.

Egle fece l’occhiolino.

– Ti sarai annoiata a morte.

– Sono ufficialmente in pensione da qualche ora, avrò tempo di distrarmi nei prossimi giorni.

Uscite dal palazzo, Ester tirò un sospiro di sollievo: nessuno si era accorto della loro presenza. Si fermarono sotto il portico per salutarsi, mentre l’aria fresca animava la percezione del traguardo insieme ai vestiti. L’alba stava arrivando dal mare, Piazza San Marco era permeata di luce arancione, un chiarore incandescente che si presentava come il fuoco di un nuovo inizio.

– Spero di rivederti ancora – disse Egle commossa.

– Lo spero anch’io – rispose Ester – mi ricorderò di questa notte per sempre.

Egle le prese la mano tra le mani, in gesto di riconoscenza; Bianca con gli occhi le fece un sorriso.

Poi si separarono; Ester da un lato, Bianca ed Egle dall’altro.

Le due ragazze camminarono in silenzio attraversando rive, campi e fondamenta, come se Venezia fosse interamente loro.

Arrivarono al ponte dell’Accademia, dove tutto era cominciato.

Proprio lì, Egle si era gettata dal vaporetto, compiendo l’estremo gesto di disperazione. Bianca era andata all’ospedale e da allora erano state una cosa sola, un’unica forza contro una realtà sfuggente e cupa.

– Come facesti a sapere che ero io? – chiese Egle.

– Alla radio dissero che ti eri tolta le scarpe.

Si misero a ridere, poi si abbracciarono forte.

– Ci vediamo domani?

– Certo, senza di te mi annoio.

Tornarono ciascuna a casa propria. Il giorno era cominciato e la vita aveva preso a scorrere lungo i torrenti, tra le calli della città.

Una volta entrata, Egle gettò la giacca sul letto e si sfilò le scarpe. Poi si guardò allo specchio e si tolse la fascia intorno al collo. Aveva sonno, ma non voleva dormire.

Negli ultimi giorni erano successe tante cose, le domande della sua vita avevano finalmente trovato risposta.

Stava a lei, adesso, decidere se quello che aveva scoperto bastava a giustificare ogni cosa, a dare un senso alla storia e a motivare il suo dolore.

Ripercorse tutto quanto, dal giorno in cui aveva sentito suo fratello e Casiero parlare in salotto. Rivisse i silenzi di Franz, la disperazione delle grida sul litorale, l’angoscia della solitudine. Poi la notizia che Franz era morto, e l’incombere della fine.

Ripensò ai momenti sul vaporetto e all’indifferenza dell’acqua gelata, all’odore dell’ospedale e al suono della macchina cardiaca, impassibile al suo disagio di trovarsi viva.

Finché comparve Bianca, e il buio cominciò a crettarsi.

Rivide il viaggio ad Aquileia, la scoperta dei cognomi cambiati, tutti con le lettere della parola arca, l’incidente a casa dei suoi e l’incontro con gli uomini della Cerchia.

Le scorsero davanti la lettera dei suoi genitori e la scoperta di avere una nonna, il rancore di quel legame taciuto e la spiegazione, finalmente, del comportamento di Franz.

Già, Franz…a nulla era valso, per lui, trovare il settimo trionfo, dedicato all’amore. La sua fiducia nel mondo era stata compromessa dalle scelte dei suoi genitori e da quelle di sua nonna, rimasti fermi pur di non spostarsi dalle proprie convinzioni. Quello era il motivo per cui era caduto in depressione e per cui aveva preso a esagerare con l’alcol, lì si erano radicati il senso di abbandono e la ritrosia a coinvolgere la sorella: aveva tenuto la scoperta per sé nel tentativo di sollevarla dallo stesso tracollo.

Adesso tutto era chiaro, i nodi si erano sciolti e la verità si presentava come un filo sottile, possibile da seguire.

Egle aveva di fronte una decisione da prendere, un’ultima scelta da fare.

Continuare a mantenere il segreto o liberarsi per sempre di quella scatola, in cui erano riposti la sua storia e i suoi pochi legami affettivi.

Si chiese che senso avesse, in tempo di modernità, perseverare in un rito antico. Quale significato potesse esprimere, nell’epoca dei bit e della connessione globale, farsi portavoce di un messaggio esoterico e conservare un passato tanto remoto da risultare estraneo.

Tutto, intorno a lei, era progresso e velocità; tutto era uso sfrenato, azione incontrollata, trasformazione senza memoria.

Qualcosa, tuttavia, la invitava a indugiare. L’abisso tra le due realtà che si trovava a gestire la poneva in uno stato di incertezza, un ponte di corda tra due speroni di roccia, entrambi necessari a tenerlo sospeso.

Si addormentò mentre pensava, con una mano sulla scatola e l’altra sullo smartphone.

Nei giorni successivi riprese a lavorare, viaggiando intorno al mondo ad alta quota, avanti e indietro tra gli schermi delle sale di attesa.

I grattacieli, le catene commerciali, i video in diretta sulle notizie del momento.

Il tempo sembrava accelerato sotto la spinta dello sviluppo tecnologico, proteso a scavalcare il presente per paura di rimanere indietro.

Poi, finalmente, arrivò giovedì.

Egle aveva preso un giorno di permesso e non doveva partire.

Si alzò presto, fece la doccia e si infilò un abito elegante. La primavera era arrivata e il rosso del vestito spiccava sul colore dei capelli come su quello del sole.

Uscì di casa; attraversò il ponte e si diresse, a passo veloce, a calle del Carbon.

Lì, ad aspettarla, trovò Bianca insieme agli uomini della Cerchia.

– Sei sicura? – chiese l’amica.

– Sicurissima.

Alvise le strinse la mano.

– Potrai sempre contare su di noi.

Poi fece una pausa e aggiunse:

– Finché siamo vivi.

– Grazie – Egle ricambiò il sorriso.

Guardò l’orologio, emozionata.

– È il mio momento.

Lasciò il gruppo ed entrò nel Palazzo dell’Anagrafe.

Quando fu il suo turno, andò allo sportello e fece un respiro profondo.

– Vorrei cambiare il mio cognome – disse tutto d’un fiato.

– Ha con sé i documenti?

– Eccoli.

L’operatore guardò la carta d’ identità.

– Dunque, lei vuole passare da Arcanti a…?

Egle ripeté, dentro di sé, il cognome che voleva acquisire. Sillabò un’ultima volta le lettere della parola arca, poi mosse l’alluce per assecondare quel gesto di follia.  

– Scarpa – disse con fierezza – Egle Scarpa.

Firmò le pratiche e uscì. In lontananza, vide il gruppo che la attendeva compatto. Si era aggiunta Nina, arrivata di corsa dopo una trasferta a Dubai.

Quella era la sua nuova famiglia, il suo punto d’appoggio e il suo rifugio. Quella era la sua storia, partita in ritardo ma pronta a mettere radici per attraversare il futuro.

Si stropicciò gli occhi e respirò l’odore del mare.

La vita, finalmente, era cominciata.

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