2. L’indeterminazione di Aldo
Aldo entrò nel palazzo.
Aveva addosso uno strano formicolio, l’agitazione di un’incertezza che non sapeva trattenere. La porta dell’appartamento era aperta, la spinse e si trovò in una stanza silenziosa, con tanti quadri e diversi punti luce che producevano un’illuminazione decentrata. La dottoressa Betti comparve di lato e gli porse la mano.
-Buon giorno, piacere di conoscerla.
-Salve.
Le dette uno sguardo di sfuggita; nonostante fosse imbarazzato, non voleva mostrare curiosità o inesperienza. Nell’aria c’era un gradevole profumo di limone.
-Si levi pure il cappotto e si metta a suo agio. Di solito lascio ai pazienti nuovi un po’ di tempo per familiarizzare con l’ambiente. Vuole sedersi e aspettare un paio di minuti prima di cominciare?
-Le sarei davvero grato.
La Betti indicò la porta in fondo: – Quando è pronto, la aspetto nello studio.
Si sedette e cominciò a guardarsi intorno, lungo le pareti amaranto. Da chirurgo, non poté fare a meno di notare che era il tono del fegato. No… aspetta… a guardarlo bene ricordava di più il cuore o forse l’interno di un utero, color vinaccia. Aveva la gola secca, mise in bocca un Chewing-gum per aumentare la salivazione.
Di fronte a lui, un paralume a forma di ombrello, un mazzo di fiori bianchi e il ritratto a matita di un giovane uomo. Aveva un’espressione beffarda, quasi provocatoria, come se sapesse qualcosa di non detto. Possibile che guardasse proprio lui? Uno specchio rifletteva la finestra dall’altra parte della stanza; in entrambe si vedevano l’albero e il balcone di fronte, con la ringhiera verde. Uno solo era il panorama vero; l’altro non era che finzione.
Dopo poco si alzò e si diresse verso la stanza accanto.
-Credo di essere pronto – disse entrando.
La dottoressa indicò una poltrona posta davanti alla sua.
-Se preferisce può girarla, non è obbligato ad avermi davanti mentre parliamo.
Aldo la orientò dall’altra parte, verso la porta d’entrata.
-Suppongo di doverle dire il motivo per cui sono qui.
-Non occorre che lo faccia subito. Certo, prima o poi verrà fuori, ma per il momento può raccontarmi qualcosa di sé.
Così prese a parlare. Prima incerto, poche parole alla volta, poi sempre più fluido e ricco di particolari.
Esordì descrivendo il suo lavoro in corsia, il rapporto con i colleghi, la cura dei pazienti. Passò a un cugino geloso e al legame disfunzionale con sua madre, che aveva perso una bambina prima di lui e non si era mai ripresa da quella sofferenza. Mentì su tutto e là dove ci fosse qualcosa di vero, omise i dettagli del suo punto di vista.
La Betti rimase in silenzio per l’intera seduta, ascoltando quel rigagnolo di parole. Di tanto in tanto scriveva qualcosa su un grande blocco che teneva sulle gambe e conservò in viso un’espressione asettica, nonostante nessuno la stesse guardando. Passati cinquanta minuti, si intromise con garbo.
-Credo che per oggi possa bastare.
-Va bene.
-Vuole fissare per la prossima volta o preferisce pensarci con calma?
Rimasero d’accordo per il giovedì successivo, alla stessa ora. Aldo pensò che se fosse stato di turno o se avesse cambiato idea, avrebbe disdetto all’ultimo secondo esattamente come faceva con il tennis, con le donne a pagamento e con gli acquisti on line. Avrebbe risarcito quel che c’era da risarcire per togliersi l’impiccio dell’incontro e bona lè, senza farsi problemi.
Quando uscì dall’appartamento, sputò il chewing-gum per terra. Camminò lentamente verso casa, si fermò nella rosticceria all’angolo ed entrò nel portone. Sentì qualcuno scendere per le scale e si infilò di fretta nell’ascensore; non aveva voglia di salutare, nemmeno con il solito grugnito.
Per tutta la serata, ripensò alla seduta di psicanalisi. Si vide sulla poltrona, con la testa sul palmo della mano e in bocca il chewing-gum indurito. La gola secca, il tappeto damascato, il silenzio della figura dietro di lui. Gli tornò in mente il ritratto nella sala d’ingresso. Sarebbe bastato toccarlo con le dita per farlo sbiadire e scomparire per sempre; invece quel volto rimaneva lì e continuava a deriderlo.
Aveva fatto bene a mentire, si disse. Così, d’istinto, guidato da un’evidente propensione alla prudenza. Era stato spinto da un motivo nobile e necessario, una sorta di vaglio professionale. Non era una vera menzogna, piuttosto… sì insomma… una dissimulazione. L’aveva fatto per mettere alla prova la Betti e verificare la sua capacità di riconoscere l’inganno. Aveva mentito, ripeté, per essere sicuro di trovarsi in buone mani, per prendere tempo, per negare a lei la propria verità.
Poi d’improvviso una voce tra le altre. L’aveva fatto perché era un coglione. Ecco, l’aveva detto.
Era un coglione.
Quella presa di coscienza, seppur momentanea, rese fluide le coordinate del suo ego. Tornò nello studio della dottoressa Betti il giovedì successivo e quello dopo ancora, fino a farlo diventare un appuntamento fisso. Il più delle volte durante le sedute fingeva, si trincerava dietro falsi motivi e parlava di cose che lo toccavano solo marginalmente. Tuttavia, non smetteva di andarci: il colloquio per diventare primario si avvicinava e lui era ancora disarmato.
Scaltro e bugiardo, così si sentiva.
Scaltro, bugiardo e nudo.
Lentamente prese confidenza con gli oggetti della sala d’aspetto e con la sensazione di attesa che lo pervadeva nei giorni precedenti all’incontro; nei mesi, il profumo di limone diventò dipendenza e distensione. Cominciò ad ascoltare le inflessioni nella sua voce, a percepire i cambiamenti di tono, a notare se lo accoglieva col sorriso o con il solito distacco professionale. Si trovò a passeggiare nei pressi dello studio per immaginare la sua vita nella quotidianità: il supermercato, il parrucchiere, le scale del palazzo la domenica mattina. Il suo nome compariva su due campanelli, in uno c’era anche un altro cognome. Dunque, non viveva da sola? Aveva un marito? Forse una famiglia. Non sembrava che avesse figli. Oddio… poteva anche averne… certamente non avrebbe tenuto le loro cose nello studio.
La risposta arrivò un giovedì di novembre, quando accadde un evento del tutto inaspettato. Stavano facendo la seduta, lei sulla poltrona, lui girato dall’altra parte nel silenzio di sempre. Improvvisamente, dalla parete accanto, cominciarono a sentirsi dei rumori. Una porta che sbatteva, un colpo sul tavolo e poi musica. Forte, sempre più forte. Canzone arrabbiata a tutta manetta.
Canto per rabbia questa luna, contro di te… Contro chi è ricco e non lo sa…
Cammino e canto, la rabbia che mi fa.
Aldo, colpito da quel suono inaspettato, si fermò. Dopo qualche secondo di volume incontrollato, lei prese in mano la situazione.
-Mi perdoni – disse scocciata.
-Non si preoccupi, può succedere.
Invece no… non doveva succedere. Non di nuovo, pensò lei.
-Torno subito.
La vide passare di fretta, prendere le chiavi sulla credenza e uscire dallo studio. Poi sentì aprire la porta accanto, il volume abbassarsi di colpo e la sua voce, dall’altra parte della parete.
-Non era questo che avevamo deciso, Rocco.
Silenzio.
-Sto parlando con te – incalzò risoluta.
-Lo so con chi stai parlando!
-Così rendi tutto difficile.
-È più forte di me. Lo capisci o no?
-Lo capisco, adesso però calmati.
Poi le voci si abbassarono tanto che Aldo, dall’altra parte del muro, fece fatica a distinguere le parole.
-Devo tornare di là. Ti chiedo di non mettermi in difficoltà, di non farmi sentire a disagio con il mio paziente. Pensi di riuscirci?
-Sì.
La porta dell’appartamento si chiuse e la dottoressa tornò nello studio. Passò davanti ad Aldo e riprese il suo posto sulla poltrona.
Aldo non sapeva che fare, indeciso se riprendere il discorso o cambiarlo, partendo da capo. Sentì la propria voce uscire in autonomia, più veloce del suo raziocinio.
-Non si preoccupi per me, sono un medico anch’io.
Non che quella considerazione, di per sé, fosse necessaria. A ben vedere non era nemmeno pertinente: il fatto di essere un dottore non comportava l’abitudine a gestire travasi dalla sfera privata a quella professionale.
Ma la vita sa regalare delle sorprese durante lo scompiglio e quel fattore di condivisione aiutò Chiara Betti a sentirsi vagamente compresa, scomposta e riordinata in un prodotto con qualcosa in comune. Ripresero la seduta e tutto tornò più o meno nella posizione in cui era prima della scossa; lei ad ascoltare e a prendere qualche appunto, lui a parlare di sé senza giungere in fondo.
Dopo quella volta, Aldo prese a fantasticare su Rocco. Osservava tutti gli uomini che entravano e uscivano dal palazzo quando era nei paraggi, si figurava il suo viso e la sua corporatura e cercava di ricostruirne la voce dal brandello che aveva sentito. Li immaginava mentre facevano l’amore. Lui che la prendeva per darle piacere o solo per il suo bisogno di godere. L’irruenza dei loro corpi, l’espressione di lei durante l’orgasmo. Sul letto, forse anche in cucina, contro il muro. Chissà se l’avevano mai fatto nello studio, sulla poltrona in cui sedeva durante gli incontri di psicanalisi. Poi vagheggiava nel pensiero di incontrare Rocco in ospedale, ricoverato. Si trovava a desiderare di aprirlo, di tagliarlo col bisturi e vedere uscire il primo sgorgo di sangue, col potere di decidere della sua vita mentre era sotto anestesia.
Qualche volta, durante la seduta, sentiva chiudere la porta e avvertiva i suoi passi in casa o sul pianerottolo. Faceva in tempo a contare fino a tre e il rumore svaniva, leggero come un’ombra.
Aumentò, in quel periodo, la percezione di tutta la sua doppiezza. Il fatto di trovarsi a raccontare i propri pensieri, mentre altri irrompevano con tanta forza all’oscuro, lo mise di fronte all’evidenza di una spaccatura che lo riscattava dalle sue debolezze. Si opponeva allo straniero del sogno e al tremolio delle mani con la costruzione di una realtà sotterranea di cui era padrone. Tanto era vulnerabile nei momenti di crollo, tanto era vigoroso nelle sue intime pulsioni. Così borioso da diventare spavaldo, fino a rischiare di farsi scoprire.
-Si ricorda la storia di mia madre… – deviò durante una seduta – le raccontai che aveva perso una bambina prima di avere me.
-Ebbene?
-Ecco… non è vero.
La dottoressa Betti aspettò qualche secondo.
-Perché me lo dice?
-Non so… magari la aiuta a capirmi.
-L’analista è un tramite, non un confessore. Non sono io che la devo capire.
Aldo incalzò.
-Si può fare psicanalisi mentendo?
-Sa… non è necessario avere un grande trauma per intraprendere un percorso psicanalitico. Il desiderio di affrontare delle questioni irrisolte è più che sufficiente. Ma bisogna essere onesti altrimenti il nodo, invece che sciogliersi, si aggroviglia.
-Anche mentire può essere una forma di onestà.
-Si spieghi meglio.
-Se uno è bugiardo, la sua natura è quella di fingere. Nel momento in cui la libera, non fa altro che esprimersi per quello che è.
-Rispetto a cosa finge, un bugiardo per natura?
Aldo rimase spiazzato. Credeva di stupire la Betti e di stringerla all’angolo con i propri ragionamenti, tendere la rete della provocazione e pescare, magari, qualche turbamento inaspettato. Metterla in difficoltà voleva dire costringerla a riconoscerlo superiore; abbassarla per innalzare sé. A ben vedere voleva fare proprio questo, null’altro che questo: dimostrarle chi era. Invece lei aveva reagito aprendo un terreno di scambio, una zona neutra in cui il più paradossale dei confronti era possibile.
Rispose con una certa disinvoltura, lasciando intendere che si prestava al gioco.
-Rispetto a come lo vedono gli altri, penso.
-Dunque, se fosse solo non mentirebbe?
-Che cosa intende per solo?
-Solo. Cresciuto nella giungla o su un’isola deserta: senza società.
-Credo di no, non mentirebbe. Non avrebbe più senso.
-Forse, allora, è quello che dobbiamo rivedere: il senso.
Anche Chiara Betti, in quel preciso momento, fece i conti con i propri retropensieri. Gli psicanalisti non devono esprimere le loro opinioni sul senso delle cose, si tratta di un’attribuzione soggettiva che può essere forviante. Devono rimanere in disparte, guidare verso un’autenticità che non è la propria, ma quella del paziente.
Lo sapeva fin troppo bene e se lo ripeteva attraverso il disagio di quella conversazione. Ripensò per un attimo a quando aveva sgarrato, con Rocco. Forse un giorno l’avrebbero punita per quella scelta, prima o poi avrebbe pagato il conto. Sterzò verso una linea morbida, togliendo il proprio giudizio dal discorso.
-Vede… la realtà non è fatta da individui, ma da relazioni. Noi pensiamo di essere al centro di tutto, ma un vero centro non c’è. Provi a immaginare che cosa sarebbero i neuroni senza le sinapsi. Oppure gli elementi chimici, se non potessero reagire. Semplicemente, non ci sarebbe la vita. Da soli valiamo poco ma questa idea, per qualcuno, è difficile da digerire. La presenza degli altri condiziona il nostro ambiente ma anche noi, di rimando, influenziamo il loro. Uno sguardo che entra in campo cambia le condizioni di gioco e, quindi, tutta la partita… qualcosa si aggiunge e qualcosa si perde.
-Che cosa si perde?
-La possibilità di sapere. Prendo in prestito un argomento scientifico, visto che entrambi ci occupiamo di Medicina. Ha presente che cosa succede nell’atomo? Non possiamo conoscere la posizione e la velocità di una particella nello stesso momento perché lo strumento di misura, inserito nel sistema, modifica l’insieme e stravolge i risultati. Dobbiamo scegliere se conoscere dove siamo o dove stiamo andando.
Così Chiara Betti illustrò il concetto di indeterminazione, che ridimensiona l’ego e rende tutti parimenti incerti. Spiegò ad Aldo Balzani, quel giorno di novembre, che siamo animati da forze che si nascondono a turno mentre danzano insieme. Ragione e sentimento, bagliore e oscurità, coppie di opposti che si tirano a vicenda e intanto generano il nostro modo di essere.
Aldo intuì, in quel giorno di novembre, che siamo figli di una caotica danza, chiusi tra una spinta e l’altra, in risonanza. Siamo corde che vibrano e parole che rimbombano, destinati a rimanere incompleti. Un tutt’uno con gli alberi, con le foglie, con gli uccelli che volano nei prati. Qualche volta felici e qualche volta amareggiati, strumenti di misura e misurati, soldati allineati sulla terra di confine, indeterminati per principio, fino alla fine.



