Sator Arepo, il labirinto divino

‘Tutti i quadri hanno una porta’- Con questa frase nella testa Martina si sdraiò sul tappeto proprio di fronte al dipinto.

Era una tela quadrata composta da 5 parole in latino, ciascuna a sua volta formata da 5 lettere: Sator Arepo Tenet Opera Rotas.

Martina aveva sentito dire qualcosa su quel giro di vocaboli e aveva letto delle leggende sulla loro interpretazione: quell’iscrizione compariva inspiegabilmente in tutto il mondo, incisa sulle cattedrali e sui monumenti delle città più antiche a testimonianza di un messaggio non ancora ben decifrato.   Era un quadro palindromo in ogni direzione, poteva essere letto dall’alto verso il basso e  da sinistra verso destra; uscivano sempre le stesse parole.  Anche la frase nella sua interezza era palindroma: scorsa al contrario satoR arepO teneT operA rotaS dava lo stesso identico suono.

Martina mise le mani dietro la testa e allargò lo sguardo sul quadro, poi socchiuse gli occhi e cominciò a guardare lettera per lettera. La scritta Tenet compariva a croce nel mezzo della tela dividendola in orizzontale e in verticale e separava le stesse parole: sator arepo da un lato, opera rotas dall’altro.

– Tenet…Tenet – pensò Martina, quasi a cercare il significato tra i ricordi della sua memoria. Poi aggiunse: ‘tiene’.

Scorse velocemente la scritta da tutti i lati una, due, tre volte e si soffermò su un particolare. La lettera T era formata da due segmenti, uno perpendicolare all’altro. Il trattino verticale passava per il punto medio di quello orizzontale e lo divideva in due parti uguali, proprio come la scritta Tenet scomponeva il quadro a metà.

In quel momento avvertì un fremito e uno scossone, come se qualcosa la tirasse dall’interno. In un attimo le sua braccia si allungarono e si sentì risucchiata da un vortice, aspirata in un flusso incontrastabile e fulmineo. D’istinto si tappò il naso e chiuse gli occhi; quando li riaprì si accorse che era entrata nel quadro: la T di Tenet era dunque la porta.

Si alzò in piedi e si guardò attorno. Accanto a lei sovrastava un enorme tronco, indubbiamente il più grande che avesse mai visto. Lo guardò meglio girando la faccia in ogni direzione; si trattava della lettera T rispetto alla quale lei risultava adesso molto piccola. 

– C’è una T su tutti i lati – pensò Martina- Come faccio a sapere da quale parte sono? –

Così cominciò a camminare girando la testa a destra e a sinistra. Guardò l’orologio e vide che erano le 16:20.

– Se mi sbrigo faccio in tempo a uscire per la merenda- pensò.

Dopo un po’ vide la forma di una struttura alta e inclinata; era il fianco della lettera A. Ci girò intorno e si mise a sedere vicino alla base, con le braccia sulle ginocchia. Le prese un nodo alla gola e un’ improvvisa voglia di piangere – Come faccio a tornare indietro…dopo tutto questo tempo sono ancora alla lettera A! – Guardò l’orologio e vide che erano ancora le 16:20; il tempo si era fermato.

Era sola, senza riferimenti e senza certezze. Nessuno a cui chiedere, nessuno con cui arrabbiarsi, nessuno con cui fare la pace.

Si alzò e riprese il cammino. Trovò una dopo l’altra le lettere delle 5 parole Sator Arepo Tenet Opera Rotas; ad ogni T si fermava e si chiedeva: – Sarò forse entrata da qui? – Ma niente, non riusciva a distinguerle e non vedeva punti d’accesso, quindi continuava a girare. Realizzò così di trovarsi in un labirinto.

I labirinti sono strutture ingarbugliate che mettono alla prova la nostra intelligenza. Nei labirinti non si cammina: si girovaga e ci si perde, si vagabonda e si peregrina come forestieri smarriti. C’è chi  rimane invischiato per tutta la vita e chi avrebbe bisogno di più vite per venirne a capo, altri invece riescono ad uscire in tempi utili per potersi riabbracciare; per nessuno è una passeggiata veloce.  Beato chi esce dal labirinto una volta per tutte, “chi è stato felice una volta non potrà mai essere distrutto”. Con queste parole, che aveva letto in un libro di Emil Cioran, la ragazza si dette una scossa.

– È inutile girare a vuoto, devo seguire una strategia- Martina si mise a pensare. – I labirinti possono avere molte forme, ma tutti hanno un centro. Devo arrivare lì. –

Socchiuse gli occhi per immaginare il quadro dall’esterno in modo da rivederlo per intero.

– Devo raggiungere la S e poi andare in diagonale, verso la lettera R.-

Camminò e camminò, l’orologio segnava sempre le 16:20.

Finalmente, dopo qualche tentativo, raggiunse la R. Fece un balzo tenendo la diagonale e si trovò ai piedi della N, nel centro del dipinto. Quello che vide la lasciò frastornata. C’era un enorme specchio, così alto e così lungo da non vederne la fine. Martina guardò e vide una cosa stranissima. Più figure comparivano nel riflesso ed erano tutte lei. C’era lei da piccola e lei da ragazzina, lei che piangeva e lei che rideva a crepa pelle. Vide se stessa che studiava di giorno e di notte, leggeva tutto quello che poteva leggere e non aiutava nessuno; si vide isolata dai compagni di classe e profondamente sola. E poi c’era lei che aveva paura, in un angolo lontano dal centro e accanto ancora lei con i capelli bianchi e piena di rughe, lei con le gambe gonfie e lei china su un bastone malfermo.

Martina rimase immobile, con le mani appoggiate allo specchio e una fitta all’altezza dello stomaco.

Che cosa significava? Perché tutte quelle immagini nel centro del quadro? Che cosa c’entravano con le parole del dipinto?

Doveva tradurre quei termini scritti in latino. Si mise a pensare, l’orologio segnava le 16:20.

Sator Arepo Tenet Opera Rotas.

Cominciò dal primo vocabolo, Sator, con qualche difficoltà. Viaggiò nella memoria in cerca di riferimenti passati. Aveva letto diverse interpretazioni sull’incisione, doveva ricordarsi che cosa dicevano, doveva ricordare.

– Sator….Sator…Mi sembra che voglia dire ‘seminatore’. Potrebbe anche  essere. Che sia una frase per l’agricoltura? – Pensava tra sé e sé – Certo…però…una frase agricola incisa sulle cattedrali avrebbe ben poco senso. Forse un auspicio per il raccolto, chissà-

All’improvviso ebbe un flash e le vene in mente un’immagine del passato. Si rivide da piccola, nel banco della scuola elementare mentre colorava un disegno per la maestra di storia. Era l’immagine di un dio Egizio – Come si chiamava? Ah ecco, Hathor, si chiamava Hathor. Sator, Seminatore, Hathor, dio.  Ma certo! Seminatore inteso come padre, divinità! Tutto torna con le cattedrali, andiamo avanti.-

Martina parlava al plurale in cerca di un confronto, l’idea di essere sola in quel silenzio surreale le dava un certo senso di disagio a cui preferiva non pensare.

Prese il secondo vocabolo: Arepo. Ci pensò a lungo ma niente, Arepo proprio non le veniva in mente. Si sentì scoraggiata ma decise di ignorare la sensazione di sgomento e di paura che diventava sempre più profonda, quindi passò alla parola ‘Opera’.

– Opera è facile, mi pare sia un complemento di mezzo. Significa ‘con le opere’, ci può stare.

E Rotas? Che cosa significa Rotas? Saranno Ruote? –

La parola ‘ruote’ la riportò al carro del contadino, forse allora Sator significava davvero seminatore. Uffa, era troppo difficile, non ce l’avrebbe mai fatta!

Si stese per terra e chiuse gli occhi, come faceva quando era sola in casa e sentiva la musica di Moby. Pensò alle ruote di legno e le venne in mente il suo professore del liceo mentre spiegava il moto di rotolamento. Fece un sorriso, quello che le era sempre apparso come un tormento diventava adesso un segno di vita che le riscaldava il cuore. Poi continuò a pensare.

– Le ruote sono cerchi che scorrono….cerchi che scorrono, cerchi-che-scorrono. –

Sentì un brivido forte, la parola cerchi la fece sussultare. –

– Il cerchio è l’immagine del divino! È la ciclicità, il tempo, lo scorrimento senza inizio e senza fine, l’equilibrio dinamico- Ripeté le parole con le loro traduzioni per cercare un senso complessivo: ‘Dio Arepo tiene con le opere i cerchi’. Il significato era ancora decisamente oscuro.

Rimaneva da tradurre Arepo ed era in grossa difficoltà. Ripensò a tutto, a lei sul tappeto, all’orologio fermo, allo specchio nel mezzo del quadro. Già….lo specchio. Lo specchio l’aveva riflessa, aveva restituito l’immagine di lei. NON LEI, LA SUA IMMAGINE. E che cosa faceva la parola tenet? Divideva il quadro quadrato in parti simmetriche, proprio come uno specchio. Sopra le parole Sator Arepo, sotto Opera Rotas. Sopra Dio e sotto il divino, la sua manifestazione. Ma perché Arepo?… non ricordava che ci fosse una parola simile in latino. Non ricordava, non ricordava!

– Però aspetta – disse Martina a voce alta – Mi fa venire in mente qualcosa…forse non c’entra nulla o forse sì…non lo so, non lo so… – I pensieri le si si affastellavano nella mente.

Ripensò a un passo dell’Odissea in cui le  Simplegadi, due promontori nel mare, venivano chiamate in due versi vicini con due nomi differenti e Circe diceva che uno è il nome usato dagli uomini mente l’altro è usato dagli Dei. Anche Proclo, del resto, se non ricordava male disse ai saggi una cosa simile, che le divinità appaiono con nomi che i profani non conoscono. –

– Arepo potrebbe dunque essere un nome di Dio e rappresenta ciò che gli uomini non possono capire… – Martina sentì un tuffo al cuore.

-Dunque, ricapitoliamo. Tenet è la capacità di Dio, Dio Tiene, detiene, ha. Dio inteso come Principio regolatore, come Senso, come Energia di tutte le cose.  Ma Tenet è anche lo specchio che lo separa dal suo riflesso, l’unica cosa che possiamo vedere di Lui. Lo vediamo nel tempo, nella natura, nelle opere dell’uomo. Non vediamo il Principio, che sta in alto, vediamo la sua immagine riflessa, rappresentata in basso dal cerchio!

Non era forse questa un’ interpretazione esoterica del problema della quadratura del cerchio? Trovare un quadrato che avesse l’area uguale a quella di un cerchio; costruire con la riga e il compasso, strumenti terreni, una figura che rappresentasse l’immagine della Legge Suprema.

– Ed è un problema irrisolvibile perché quel quadrato geometricamente non si può trovare – disse Martina. E lo ripeté, urlando con tutto il fiato che aveva in gola: – Non si può trovare!-

Eccolo lì, il senso del Sator Arepo: un quadrato che contiene un cerchio di parole, il desiderio di vedere ciò che non possiamo immaginare. Veniva inciso sulle cattedrali per indicare l’opera con cui l’uomo tende a Dio, un luogo profondamente sacro.

Era un messaggio cifrato, pieno di simboli e comprensibile a pochi, perché il problema di vedere Dio è da sempre inaccessibile . Era un labirinto dentro se stessi, un groviglio di significati alla ricerca di un rimando che consentisse per una volta di vedere il padre. La richiesta disperata di un senso, il desiderio illegittimo di toccare con le mani la felicità e di provare per un istante la sensazione di essere immortali, perché “chi è stato felice una volta non potrà mai essere distrutto”.

Martina era esausta, tremava e piangeva per la commozione.

Si asciugò la fronte e con la coda dell’occhio vide l’orologio, erano le 16:21.

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