2. Il tempo di Franz
Sulla strada del ritorno, Bianca camminava con lentezza e intanto pensava.
Il vento era ancora forte e lei si strinse il giubbotto alla gola.
Ossessivamente ripercorse tutto quello che era appena successo; aveva bisogno di inquadrare quell’avvenimento in un contesto più generale o forse, assurdamente, di anticipare le conseguenze che quell’incontro avrebbe avuto su di lei. La sua mente vagava con ostinazione tra le poche informazioni che aveva, alla ricerca di un senso.
Subito dopo che la ragazza del vaporetto aveva aperto gli occhi all’ospedale, la macchina del ritmo cardiaco aveva preso a suonare ed era arrivata l’infermiera.
– Potrà tornare domani – aveva detto – per il momento è meglio farla riposare.
Così Bianca aveva dovuto lasciare la stanza e frenare il suo desiderio di sapere, repentinamente sospendere ogni pungente, angoscioso interrogativo che le si affastellava nella mente e attendere pazientemente che passassero le ore.
Una prova però l’aveva avuta, svelata dall’espressione di uno sguardo: al nome Egle la ragazza si era girata e non c’era dubbio che avesse in sé la consapevolezza della propria identità.
Anche i lineamenti la convincevano: il viso magro e il carnato chiaro, insieme ai capelli biondo rame, avvaloravano il suo presentimento e alimentavano la sensazione che l’aveva condotta lì. Bianca era sempre più convinta che quella giovane donna potesse realmente essere la sorella di Franz.
Già, Franz… pronunciare quel nome, anche solo col pensiero, era per lei estremamente doloroso. In pochi mesi aveva toccato con lui la vetta più alta del paradiso e la parte più fonda dell’abisso; dalla percezione effimera della felicità era piombata in quella tattile della morte, con una fermata senza preavviso.
Adesso, per via della casualità in cui si era imbattuta, si trovava a ripercorrere attimo per attimo i momenti del loro primo incontro, quando le fattezze di quel giovane stravagante avevano invaso il suo campo visivo, lasciandola disarmata.
Tutto era cominciato un anno e mezzo prima, un giorno di maggio.
– Permesso? – aveva detto lui entrando nella Bottega.
Teneva tra le mani un quadro sommariamente impacchettato, una tela rettangolare alta come un ombrello e lunga come un nano da giardino.
– Sono qui, in fondo – aveva risposto lei mentre avvisava Alvise con un’occhiata di intesa – arrivo subito.
Bianca rivide tutta la scena, a partire da quando si alzò dallo sgabello e si avvicinò all’ingresso pulendosi le mani con uno straccio da lavoro.
Si trovò davanti un ragazzo alto con i riccioli rossi e le scarpe un po’ slacciate. Il collo allungato usciva dal maglioncino verde e accompagnava lo sguardo su una barba vagamente trasandata, di due o tre giorni al massimo, all’interno della quale sbocciavano una bocca magistralmente disegnata e i denti più perfetti che lei avesse mai visto.
Lo guardava in silenzio, mentre continuava a pulirsi le mani in un gesto ormai privo di utilità, finché la sua estasi fu bruscamente interrotta.
– Vorrei una cornice per questo – disse lui mentre spacchettava il quadro.
– Si…certo. Bianca guardò il dipinto. Ebbe un attimo di smarrimento, non si era ancora ripresa dal turbamento per il giovane e di nuovo veniva rapita da una visione, questa volta della tela. Vi erano rappresentati due orologi, due cerchi immateriali con un’intersezione comune, completamente formati da numeri. Ogni cosa che fosse nel dipinto, dai bordi dei quadranti alle lancette e poi fino allo sfondo, era costituita da cifre alfanumeriche di diverse grandezze che risultavano allo stesso tempo fitte e sorprendentemente armoniose, un mandala di segni che riempivano la vista come atomi di una realtà intangibile.
– Accidenti, è davvero singolare. Chi è l’autore?
– L’ho fatto io.
– Sono tutti numeri e simboli…
– Complimenti, hai uno spiccato senso del particolare.
Bianca colse l’ironia di quella affermazione e si mise a ridere. Lui fece altrettanto, mosso da un istintivo desiderio di complicità. Alvise di lato lucidava le cornici e guardava la scena.
– Vogliono dire qualcosa? – riprese lei.
– Che domanda, tutto quello che abbiamo intorno vuole dire qualcosa. Non penserai mica che la realtà sia solo quella che vedi.
Bianca prese il quadro e lo portò verso la vetrata, per avere più luce.
Non avrebbe saputo dire che cosa stesse succedendo, ma quando posò il suo sguardo sulla tela le parve di entrare in una dimensione sconosciuta.
Disse la prima cosa che le venne in mente, poi se ne vergognò pensando che fosse una domanda stupida.
– Come mai ci sono due orologi? Non bastava uno per indicare l’ora?
– Sono due perché segnano due tempi diversi. Uno è quello personale, l’altro invece è quello dello spirito. Lo spirito del mondo intendo, la realtà impalpabile che scorre tra le nostre vite come un fiume sotterraneo.
– Dimmi qualcosa di più, spiegami almeno uno di questi numeri…uno soltanto, dai.
– Va bene, uno soltanto. Guarda qui, dove arriva la lancetta dell’orologio a destra. È il numero 137, ne hai mai sentito parlare?
– Mai.
– È una costante che in fisica ha un grande valore. Per la precisione, il numero veramente importante è il suo inverso, cioè 1/137, detto Costante di Struttura Fine.
È il risultato di una relazione tra tre grandezze: la carica dell’elettrone, la costante di Planck, che è la più piccola quantità misurabile dell’Universo, e la velocità della luce.
Se non avesse quel valore, l’universo non sarebbe com’è. Nulla intorno a noi sarebbe come lo vediamo e nemmeno noi lo saremmo! C’è da chiedersi come mai il risultato di quel rapporto conduca proprio al numero 137 e credimi…. è una domanda che si sono fatta in molti. Ad oggi non lo sappiamo, è uno dei misteri che regola la nostra esistenza, ce l’abbiamo sotto gli occhi e tra le mani, nella struttura della materia che tocchiamo, ma non sappiamo governarlo: la sua verità non è rilevabile dai nostri sensi, è sottile.
– Era questo che intendevi quando parlavi di realtà impalpabile, il fiume sotterraneo che scorre tra le nostre vite?
– Esattamente.
– Dimmi un altro numero.
– Avevamo detto uno solo!
– Allora dimmi del pesce, qui nel mezzo, che cosa rappresenta? È la forma di Venezia?
– In un certo senso…
Franz abbozzò un sorriso. Bianca notò un’espressione strana, quasi velata di malinconia. Pensò che in quel dipinto ci fossero dei ricordi, forse qualcosa che il ragazzo non voleva dire.
– Facciamo così – riprese lui – ti parlo di un altro numero, ma non adesso. Domani, mentre mangiamo un gelato. Accetti?
– Accetto.
Così i due fissarono per il giorno dopo, entrambi impazienti di potersi rivedere.
Quando Franz uscì dalla bottega, lei prese il quadro per metterlo sullo scaffale tra i lavori da fare. Continuava a guardarlo, ancora rapita, quando Alvise ruppe il silenzio.
– Quel ragazzo porta guai – disse serio.
– Mi sembra che per ora porti lavoro – rispose lei sorridendo – ad ogni modo stai tranquillo, so badare a me stessa.
Lui si trattenne dal commentare ancora, la guardò e poi riprese a lavorare. Rimise le mani ruvide sulla cornice e fece finta di niente.
Gli sfuggì solo un sussurro, qualcosa che disse tra sé senza dargli una voce.
Era la raccomandazione di un vecchio che con i calli si parava dalla vita, l’ammonimento di un bottegaio aspro e scortese abituato a scorgere nel vento l’arrivo della tempesta, la preghiera al cielo, fosse questo il caso o anche il destino, per una sorte mite nonostante la preoccupazione.
– Stai attenta Bianca – mormorò tra i pensieri – stai attenta.