18. Questo mi taccio

Una volta scesa dal treno, Egle si separò dalle amiche.

– Ho bisogno di prendere un po’ d’aria – disse senza dare troppe spiegazioni – faccio due passi prima di rientrare.

– Va bene – risposero loro – ci aggiorniamo poi.

Erano tutte e tre stanche e ciascuna proseguì per la sua strada.

Nina andò a prepararsi per la trasferta del giorno dopo, Bianca si avviò verso casa ed Egle prese a camminare lungo i canali.

Erano passate le 18 e la primavera era alle porte; le giornate si stavano allungando e il tramonto indugiava altrove prima di giungere dietro le rive.

L’aria fredda si mescolava all’umidità che saliva dai corsi d’acqua e sferzava i visi delle persone, le calli erano scene animate da passanti infagottati che rendevano Venezia viva e abitata.

Egle prese a camminare senza una meta precisa. Dalla stazione passò il ponte degli Scalzi e si trovò nel sestriere Santa Croce, proseguì verso il Fondaco dei Turchi e giunse a Cà Pesaro, spinta da una smania che le muoveva gli arti in modo autonomo, come un manichino tirato dai fili.

Si sentiva avvilita e irresoluta. L’ultimo periodo era stato un susseguirsi altalenante di novità e delusioni, certo sorprendente per l’arrivo di Bianca ma al tempo stesso sfibrante, esposto agli insuccessi e profondamente incerto. Più volte si era domandata se la ricerca che stavano facendo le avrebbe mai condotte da qualche parte, sempre si era risposta che non avevano altra scelta se non provare e riprovare, fino a esaurimento delle possibilità. Adesso era arrivato il tempo del primo bilancio ed era sconfortata, sopraffatta dal buio della situazione.

Nonostante le energie messe in campo, nulla era emerso sul segreto di Franz, se non il fatto che anche i suoi genitori erano stati coinvolti. Le sembrò che quella storia li avesse ammazzati tutti, fatti fuori da un mistero che avevano custodito fino alla morte e che aveva risparmiato proprio lei, unica superstite e unica ignara. Si chiese se le due condizioni fossero collegate e se il fatto di essere all’oscuro l’avesse in qualche modo preservata dalla sorte dei suoi familiari. Nessuno poteva prevedere che cosa sarebbe successo se avesse scoperto il segreto, nessuno poteva escludere che sarebbe scomparsa a sua volta, chissà in quali circostanze.

Ripensò a quel giorno di pochi mesi prima, quando si era gettata nel Canal Grande. Riconobbe il senso di sconforto e l’immensa solitudine che l’aveva condotta a quel gesto, i sensi di colpa per non aver ricucito con Franz, la paura dell’oblio e lo stato di abbandono. Non ci aveva più pensato, distratta dalle nuove vicissitudini e dalla vita ritrovata con l’arrivo di Bianca. Adesso, inaspettatamente, provava nuovamente le stesse emozioni.

C’era qualcosa di oscuro nel suo stato d’animo, una voce opaca che la pervadeva dall’interno, impossibile da ricacciare. Era una chiamata inafferrabile e penetrante, un presagio di sventura che scorreva sottopelle e sfociava in un sibilo di morte.

Camminò per un’ora, vagando tra una riva e l’altra. Si trovò, quasi senza accorgersene, nei pressi dell’appartamento in cui aveva vissuto con Franz e decise di salire, spinta dal bisogno disperato di sentire la sua famiglia vicina.

Aprì la porta ed entrò nel corridoio buio, subito avvolta da un’atmosfera di sospensione. Tutto era immobile, abbandonato, muto; le cose, intorno a lei, apparivano lontane dalla vita che era scorsa in quegli spazi: una realtà senza battiti e senza respiri.

Camminò per la casa, lentamente, passando da una stanza all’altra. Toccava i mobili, gli oggetti, le pareti; cercava con la mano le forme di un passato che rammentava felice e che invece le faceva male, al tempo stesso incantato e brutale.

Andò in salotto, senza aprire le finestre e si gettò sul divano. Distesa, con gli occhi puntati sul soffitto, prese a ricordare.

Si vide correre nel corridoio, con le trecce biondo rame e la tuta celeste di quando era bambina.

– Mamma, Franz mi dà noia!

– Franz, lascia in pace tua sorella.

– Ha cominciato lei, ha messo le perline nella vasca del pesce.

– Volevo fargli il cinema.

– Su basta, piuttosto prepariamo la cena. Chi mi aiuta a fare la pizza?

– Io!

– Anche io!

– No, te no.

– Ma insomma, smettetela di litigare.

Egle, distesa sul divano, sorrise nel buio. Sentiva le voci di allora, il riverbero dell’acqua nella fondamenta sotto casa, l’odore dei vestiti appena lavati.

Poi un’altra scena, ancora indietro nel tempo.

Era in salotto, proprio lì dove si trovava adesso, e camminava verso suo padre che era seduto alla scrivania. La luce della lampada, puntata sul documento che leggeva, metteva in risalto la sua dedizione per lo studio dei testi antichi.

– Ehi ragnetto – aveva detto lui vedendola arrivare.

– Non sono un ragnetto, sono una bambina.

– Certo, una splendida bambina con le zampette nere e pelose!

La prese e la fece ruotare in una capriola attorno alle sue gambe, mentre lei si dimenava e intanto rideva. Il ricordo di suo padre era rimasto per lei l’esempio più vivido della purezza dell’amore, il modello intaccabile di un sentimento dolce e totalizzante, incredibilmente leggero.

– Babbo – aveva aggiunto poi – a volte sento brulicare sotto i piedi.

– Ah sì?

– Sì, succede quando vedo un’ingiustizia.

– Sei fortunata, almeno sai da che parte stare.

– Non mi credi!

– Certo che ti credo. I piedi sono una cosa seria.

– Vedi, non mi credi.

Poi lui l’aveva presa in braccio e l’aveva stretta a sé.

– Ti voglio bene tesoro mio. Adesso però lasciami leggere, altrimenti perdo il filo.

– Va bene, vado dal pesce di Franz.

– Ciao ragnetto.

– Ciao babbo, ti aspetto di là.

Ti aspetto, ripeté Egle quel giorno di tanti anni dopo. Ti aspetto.

Quelle parole suonarono come la denuncia di un’attesa incompiuta, l’emblema di un tradimento, una promessa non mantenuta e dunque spietata.

– Dove sei Babbo, perché mi hai lasciata?  – disse a voce alta – Tutti mi avete lasciata, senza darmi la possibilità di capire. Eppure dicevate di amarmi. Era amore quello?

Alzò la voce e ribadì, in un gemito di rabbia:

– Dimmi babbo, era amore?

Quella domanda la assillava da tempo, sommersa nella profondità delle conseguenze che avrebbe prodotto. Egle la liberò tutta d’un fiato, scagliandone il suono sulle pareti.

Come poteva essere amore, se era intriso di menzogna? Dov’erano la schiettezza e la fiducia di cui aveva bisogno, dove l’unità, la condivisione, il senso di appartenenza? Una cosa sola sapeva con certezza: era stata abbandonata, senza conforto e senza spiegazione.

Si asciugò gli occhi col palmo della mano e si guardò intorno. Nella penombra riconobbe il quadro di Franz.

Era il dipinto che aveva cercato con Bianca, misteriosamente ricomparso su quella parete qualche giorno prima. Accese la luce e si avvicinò per guardarlo, guidata dalla forza disperata di una calma apparente. Toccò la tela, muovendo le dita con fare angosciato.

– È tutto complicato, tutto confuso. Ma perché, mi domando, perché.

Lo staccò dalla parete, appoggiandolo sul pavimento. Poi, spinta forse da un intuito repentino, lo girò.

Sul dietro della tavola, subito sotto la cornice, riconobbe una scritta piccola e incerta.

Con un po’ di fatica la decifrò:

S’al mondo tu piacesti agli occhi miei, questo mi taccio.

Quelle parole suonarono come una conferma ai suoi pensieri, l’epilogo disgraziato di una ricerca vitale, la risposta che stava fugando.

“Non saprai mai se ti ho voluto bene”, diceva la scritta, lasciandola in quella condizione di incertezza tormentata.

Le sembrò che quella frase fosse rivolta a lei, che vi fosse nascosto lo schema di un dilemma senza fine, la condanna a rimanere inconsolata.

E poi la conclusione, questo mi taccio, le parve una dichiarazione di intenzionalità a lasciarla nel buio. Questo non voglio dirti… non voglio dirti. Egle vi riconobbe l’accenno a una volontà precisa, l’annuncio della scelta di escluderla e di lasciarla senza risorse.

Sentì la collera attraversarla per intero. Si alzò e si gettò conto il mobile, urlando il suo dolore. Col braccio spazzò via gli oggetti facendoli cadere a terra. Doveva sfogare la sua furia, liberare la belva che la divorava dall’interno. Aprì l’anta della credenza e trovò delle bottiglie di alcolici.

Bevve dalla prima, poi dalla seconda e anche dalla terza; scossa da rabbia antica buttò tutto giù senza indugiare.

Proseguì, con forza furibonda, lanciando in aria i bicchieri nel mobile, poi i vassoi e i serviti di sua madre, finché ogni cosa fu soverchiata.

La testa girava, le gambe tremavano, un fuoco sembrava divamparle dentro il petto.

In quel momento successe qualcosa. Un episodio funesto e fatale che aggiunse la disgrazia alla sventura, tramutandola in dramma.

Scossa nel corpo e nello spirito, Egle inciampò e cadde. Non ebbe la prontezza di pararsi con le mani e crollò come un palazzo durante il terremoto, con movimenti scomposti. Arrivò sul pavimento a peso morto e finì sui vetri contundenti delle bottiglie, finché uno le forò la giugulare.

L’ultima cosa che vide fu il quadro di Franz, girato al contrario.

– La verità è sempre sul retro – farneticò.

Poi chiuse gli occhi e sentì, in lontananza, il suono del mare. Ogni cosa appariva dilatata e confusa: le forze andavano, il corpo non rispondeva, il buio avanzava nella sua testa rendendola incapace di pensare.

Un rigagnolo prese a scendere dal collo, tingendo di rosso i suoi capelli dorati.

Dopo qualche secondo, il lago di sangue era così vasto da coprire parte del pavimento.

Il silenzio era tornato nell’appartamento, lasciando nell’ambiente l’aria della rovina.

– Finisce così – fece in tempo a pensare. Le parve di vedere il volto di suo padre, giovane come lei lo ricordava, e la figura dritta di sua madre che le tendeva le braccia. Dietro di loro Franz, che la guardava senza parlare. Avrebbe voluto sorridere ma la bocca non rispose ai suoi comandi.

Improvvisamente sentì un rumore, uno scrocchio metallico che giungeva da chissà dove.

Avvertì dei passi e un pesticcio di vetri rotti. Poi una sensazione strana, forse una mano che le toccava il collo e la fronte.

Prima di perdere i sensi distinse una voce:

– Presto, serve un’idroambulanza alla fondamenta de l’Abazia. C’è una donna gravemente ferita.

Qualche secondo ancora, e la voce cessò.

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