12. Nulla da obiettare

Quella notte Egle non dormì.

Camminava avanti e indietro nella camera, in cerca di una spiegazione. Scostò le tende dalla finestra e aprì le veneziane: l’aria era fredda e il rumore della strada deserta si diffuse nella stanza.  

Ripensava a quanto era successo ad Aquileia nella giornata appena trascorsa: tutto appariva folle e insensato, ben lontano dall’essere compreso.

Perché i suoi genitori avevano cambiato cognome, così come i suoi nonni e tutti i suoi predecessori, disperdendo le tracce della discendenza? Qual era il motivo di quella scelta ripetuta generazione dopo generazione, fino a perdersi nella notte dei tempi?

Quelle domande, sprovviste di risposta, diventavano invadenti e occupavano lo spazio dei pensieri.

A queste si sommavano i dubbi accumulati nella Basilica di Santa Maria Assunta, dove lei e Bianca avevano incontrato l’uomo che fingeva di essere una guida. Le aveva avvicinate col pretesto di accompagnarle tra le navate della chiesa e aveva raccontato loro qualcosa sui simboli rappresentati nel mosaico del pavimento; Egle si interrogava adesso sul senso di quell’incontro che evidentemente non era stato casuale.

L’incapacità di trovare una spiegazione la rendeva nervosa e vulnerabile.

Aspettò, sperando di calmarsi; poi prese lo smartphone appoggiato sul comodino e cominciò a digitare.

– Dormi?

– La risposta di Bianca arrivò qualche secondo dopo.

– No.

– Ti va se parliamo un po’?

– Certo. Se vuoi puoi venire da me.

Egle guardò l’orologio: erano le 2,35.

– Sicura che non disturbo?

Mentre scriveva quella domanda, Egle si accorse che di Bianca non sapeva quasi nulla. Non aveva la minima idea di dove abitasse, se stesse con i suoi genitori e che tipo di casa avesse. Il poco tempo che avevano passato insieme era stato un turbinio di eventi volti a comprendere il segreto di Franz e non avevano avuto modo di conoscersi tra loro. Tanta confidenza e nessun passaggio intermedio: si erano trovate a condividere il nucleo più privato della loro vita senza attraversare la sfera esterna della frequentazione graduale.

– Non disturbi – rispose Bianca –  qui ci sono solo io. Ti condivido la posizione, intanto preparo un tè.

Egle si infilò i vestiti, si mise il cappello, la giacca e uscì.

Dopo venti minuti suonò il campanello di Bianca.

– Terzo piano – sentì dire al citofono.

Fece le scale e arrivò sul pianerottolo.

– Complimenti per le scarpe – disse Bianca quando la vide arrivare.

Aveva indosso un paio di décolleté dorate, col tacco di legno e un giro di pietre intorno al collo del piede.

– Sono le prime che ho trovato.

Bianca si mise a ridere.

– Vieni, accomodati.

Egle notò, appeso nell’ingresso, un quadro di Franz. Era la rappresentazione di un’arca sopra la quale si ergevano tre sagome di animali. All’interno, un po’ sfocata, si distingueva la rappresentazione dell’umanità.

– È suo, vero? – chiese per conferma.

– Sì, l’ha fatto poco prima dell’incidente. Me l’ha portato impacchettato e l’abbiamo appeso insieme.

– Anche da ragazzino disegnava arche, gli piacevano gli animali. Ho sempre pensato che lo facesse perché la parola arca compariva nel nostro cognome, come se fosse un gioco di parole. Non sapevo che avesse continuato anche da grande. Quando eravamo in affido ai servizi sociali non faceva altro che dipingere; era il suo modo di estraniarsi, di isolarsi da tutto.

– Non è cambiato molto, dopo.

Egle accennò a un sorriso, poi seguì Bianca verso la cucina.

La stanza, piccola e ordinata, era interamente rivestita da maioliche colorate.

 Sul tavolo c’erano due tazze pronte per essere usate e un pacco di pasticcini.

– Bello qui – commentò Egle indicando le pareti.

– Mi piacciono le decorazioni; tutte le volte che le guardo ci vedo qualcosa di diverso.

Bianca servì il tè e aprì la confezione di biscotti. Poi si misero sedute e cominciarono a mangiare come se fosse l’ora della colazione, mentre la notte era ancora a metà strada.

– Hai ripensato a quello che è successo oggi? – cominciò Egle – a me non torna nulla.

– Nemmeno a me, cerchiamo di fare ordine.

– Ok. Da dove cominciamo?

– Consideriamo gli eventi separatamente. Prima la visita al notaio e poi l’incontro con il tipo nella basilica. Non è detto che le due cose siano collegate.

– Va bene, partiamo dallo studio di Londero.

Egle abbassò gli occhi e si lasciò andare a una riflessione; fu un pensiero accompagnato dalla voce, l’esternazione di uno stato di incertezza che si faceva fluido e passava attraverso i pori della sua coscienza, impossibile da trattenere. 

– Aver saputo che il mio cognome d’origine non è Arcanti è stato uno shock; non riesco a farmene una ragione.

Bianca si fermò di colpo e la guardò incerta.

– Come hai detto?

– Nulla, ho detto che sono rimasta disorientata. Perché?

– Mi è venuta in mente una cosa. Certo, potrebbe essere un caso; ma sarebbe una bella coincidenza…

– Quale coincidenza?

– Ecco, dal notaio abbiamo scoperto che Arcanti non è il vostro vero cognome, che è stato cambiato quando è nato Franz. Allora mi chiedevo: perché proprio Arcanti? In qualche modo sarà stato scelto. E guarda caso, come mi hai fatto notare, contiene la parola Arca.

Egle rimase di sasso. Quella considerazione la fece stranire, arrestare, contrarre.

Si guardarono, colte da un’improvvisa illuminazione. Il loro pensiero volò nello stesso identico posto, davanti ai documenti trovati nell’archivio di Londero.

– Quali erano gli altri cognomi? – mormorò Bianca.

– Arcanti, Arcuati, Sarcati. Tutti contengono la parola Arca! Forse allora la realtà va letta alla rovescia: Franz non disegnava arche perché ci chiamiamo Arcanti, piuttosto ci chiamiamo Arcanti in riferimento alle arche, e lui le disegnava per tirar fuori un pensiero che non poteva dire…

– Dunque Franz sapeva qualcosa già da allora…. Ma perché proprio arche?

– Mah, non saprei. Forse perché sono anch’essi oggetti del mare, come i pesci che ci hanno guidato fino a questo punto.

– Dici che c’entra qualcosa l’acqua?

Bianca inclinò la testa e volse lo sguardo in alto, come se volesse afferrare un’idea.

– Arche… arche …. – pronunciò concentrata. Ripeteva la parola per accarezzarne il suono col pensiero, la sillabava per cercare dei rimandi con qualcosa che la logica non riusciva a catturare. All’improvviso aggiunse forte:

– E se indicasse l’Archè?

– Come?

– Potrebbe essere un gioco di parole, qualcosa che rimanda a un altro concetto. Sai cos’è l’Archè nella filosofia antica?

– No – rispose Egle.

– Dunque. Gli antichi greci pensavano che al di là delle cose tangibili ci fosse una realtà unica ed eterna, una legge che spiegava la nascita e la morte di tutto ciò che esiste. Era come una forza che animava tutte le cose del mondo ed esse, a loro volta, non erano che una manifestazione passeggera di questo principio. Lo chiamavano Archè, che significa appunto principio o origine.

– Qualcosa di simile a Dio.

– In un certo senso…l’essere umano ha sempre avuto bisogno di spiegare quello che ha intorno, di trovare un motivo per la propria esistenza.

– È possibile che Franz dipingesse le arche per rimandare a un principio superiore?

– In effetti, l’arca che hai appesa nel corridoio contiene l’umanità, come del resto l’arca di Noè. Cosa c’è di più misterioso? Se siamo tutti nella stessa barca, comprendere com’è fatta la barca è un obiettivo tutt’altro che secondario. D’altronde, anche i cognomi dei vostri predecessori inducono a pensare che quella parola indichi qualcosa, che abbia un riferimento preciso. Altrimenti perché ripeterlo di generazione in generazione?

– Ora che ci penso – aggiunse Egle d’un tratto – arca è una delle parole che sentii dire dall’uomo in salotto, quella volta che tornai all’improvviso.

– Oddio Egle, siamo sulla strada giusta.

– E proprio quell’uomo è ricomparso ieri nella Basilica dell’Assunta.

Egle fece una pausa.

– La mia storia si ingarbuglia sempre di più – commentò sconsolata.

Bianca le mise la mano sulla spalla.

– Arriveremo in fondo, hai la mia parola.

– Come avrà fatto a sapere che eravamo lì?

– Me lo sono chiesta anch’io. È possibile che ci stesse spiando?

– Forse ci ha seguito e non ce ne siamo accorte.

– Già, ci ha pedinato. Però, aspetta…questa cosa potrebbe avere i suoi risvolti positivi.

– In che senso?

– Nel senso che se ci segue, sappiamo dove trovarlo: è da qualche parte dietro di noi. Non è forse questo quello che vogliamo? incontrarlo e costringerlo a rispondere alle nostre domande?

– Non è mica così facile. Ora che l’abbiamo visto, possiamo riconoscerlo; ma quello che ci segue potrebbe anche essere un altro, qualcuno che poi gli passa le informazioni. In quel caso non avremmo modo di identificarlo. Poi c’è un’altra cosa: supponiamo di accorgerci che qualcuno ci sta pedinando. Come facciamo ad avvicinarlo? Nel momento in cui cerchiamo di raggiungerlo, certamente si allontanerà.

– Dobbiamo trovare un modo, sfruttare quello che sappiamo e girare le informazioni a nostro vantaggio… fammi pensare.

Bianca fece una pausa, Egle riempì di nuovo la tazza con il tè.

– Ci vorrebbe una sentinella, qualcuno che ci aiuti. Il tipo segue noi e contemporaneamente, sotto la nostra guida, qualcun altro lo raggiunge. Mamma mia, sembra la sceneggiatura di un film poliziesco!

– Non hai mica detto una cosa tanto stupida, potrebbe succedere anche il viceversa.

– In che senso il viceversa?

– Nel senso che magari la sentinella, insomma, sì… la persona che ci aiuta sta con te, e io avvicino il tipo.

– Eh…ma se noi non siamo insieme probabilmente non ci segue nessuno.

– A meno che…

– A meno che?

– A meno che l’aiutante non assomigli fortemente a una di noi due. Nella fattispecie a me!

– Che cosa vuoi dire? Spiegati meglio.

– Allora. Immagina che esista qualcuno che mi somiglia molto. Stessa altezza, stessi capelli biondi… insomma una che con qualche accortezza sul look potrebbe essere scambiata per me. Sarebbe facile trarre in inganno il pedinatore. Così, mentre voi camminate, io lo aggiro da dietro e lo avvicino.

– Conosci qualcuno che ti somiglia così tanto?

– Sì: la mia coinquilina. Sai, noi hostess di volo siamo un po’ tutte uguali; non è difficile trovare somiglianze. Nina è Magra, ha i capelli lunghi e biondi …con un cappello potrebbe essere tranquillamente confusa con me.

– Santo cielo che notizia! Pensi che potrebbe aiutarci?

– Credo proprio di sì. Le piacciono le situazioni originali. Però senti, a proposito di Nina…forse è bene che tu sappia una cosa.

– Che cosa devo sapere?

– Ecco, insomma sì…è una hostess di volo particolare.

– Che significa particolare?

– Significa che nel tempo libero fa la escort. Ci sono problemi?

Bianca si mise a ridere.

– Ci mancava la escort adesso!

– Dunque tutto ok?

– Tutto ok, non ho nulla da obiettare. Ma senti, così, giusto per sapere…

Egle rispose prima che Bianca arrivasse alla domanda.

– No – disse semplicemente – io non lo faccio.

– Scusa se te l’ho chiesto.

– Figurati, te l’avrei chiesto anch’io – commentò Egle mentre si stropicciava gli occhi.

Da qualche tempo erano sedute al tavolo, il tè si era freddato nella teiera e i biscotti erano quasi finiti.

Bianca sentì il peso delle palpebre che faticavano a rimanere sollevate, Egle sbadigliò.

L’orologio della cucina segnava le 4,20 e Venezia era ancora indefinita, avvolta nel manto della notte.

– Arriverà l’alba anche oggi vero? – disse Egle mentre abbassava la testa sul braccio.

– Sarei propensa a pensare di sì – rispose Bianca mentre faceva lo stesso gesto.

– Certo che parli proprio strano.

– Le tue scarpe sono orribili.

– Egle sorrise piano mentre cedeva al sonno. Bianca non la vide perché era già crollata.

Due ore dopo l’alba arrivò e un nuovo giorno ebbe inizio.

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