3. La scelta del caso

La decisione di Franz di entrare nella bottega di Alvise era stata tutto, meno che casuale.   

Da qualche tempo gli ronzava in testa l’idea di parlare con Bianca, la ragazza dallo sguardo gentile che lavorava come restauratrice nel laboratorio.

Aveva voglia di avvicinarla e di scambiare due parole con lei, certo di presentarsi come uno sconosciuto qualunque. Del resto, Bianca non poteva ricordare…erano passati troppi anni da quell’episodio quando aveva pensato, per la prima volta nella vita, di aver trovato un’amica.

Tutto era accaduto quando erano bambini, nel breve periodo in cui avevano frequentato la stessa Scuola Elementare.

Lui era arrivato a metà anno insieme a sua sorella, accompagnati da una signora smilza e un po’ sgraziata che si occupava della loro custodia.

I loro genitori erano venuti a mancare a seguito di un incidente nella Biblioteca Marciana, in cui lavoravano come custodi, e da allora, visto che non avevano altri parenti, erano in affidamento ai Servizi Sociali.

A tanti anni di distanza, Franz aveva ancora vivo dentro di sé il ricordo della conversazione origliata dietro la porta del direttore quel giorno di febbraio:

– Non è possibile che non abbiano proprio nessuno – aveva detto l’uomo stupito.

– All’anagrafe non c’è traccia di alcun familiare – aveva replicato l’arcigna signora – non uno zio, un nonno, un consanguineo di grado lontano…sembrano arrivati dal nulla.

Così il direttore aveva chiamato la bidella e li aveva fatti accompagnare nelle rispettive classi, lui in quarta e lei in seconda.

Quella separazione fu un trauma per entrambi, abituati come erano a cercarsi per non soccombere al dolore e all’incertezza dei giorni a venire.  

Una volta entrato nell’aula, Franz prese posto nel banco vuoto dell’ultima fila, provando un enorme senso di angoscia: tutto appariva estraneo, freddo, ostile. Perfino l’odore era acre e penetrante, i fumi della mensa al piano di sotto facevano dimenticare di essere tanto vicini al mare.   

Una volta seduto, la maestra si presentò e gli fece un sorriso; gli chiese se aveva l’occorrente per scrivere e, quando lui rispose di sì, riprese a spiegare mentre gli altri bambini lo guardavano incuriositi. 

Franz, con il quaderno sul banco, stette tutta l’ora a fissare il cielo fuori dalla finestra senza sapere dove appoggiare il pensiero.

Durante l’intervallo seguì gli altri in cortile. Con lo sguardo cercava sua sorella, scandagliava da lontano piccoli e grandi aggregati di grembiulini blu per individuare se da qualche parte ci fosse anche lei.

Riconobbe i suoi capelli biondi in mezzo a un gruppo di ragazzine che le si stringevano attorno, chiudendola in un angolo del piazzale. Fece per avvicinarsi e cominciò a sentire i loro discorsi.

– È vero che sei orfana? – chiedevano alcune – O ti hanno abbandonata?

Altre rincaravano la dose:

– E quello con i capelli rossi chi è, tuo fratello? Ha i colori del demonio.

Franz allungò il passo per intervenire, furibondo, quando vide una bambina mora entrare di forza nell’assembramento.

– Lasciatela in pace, vipere! – disse con determinazione – Sparite immediatamente oppure dico al direttore quello che avete fatto ieri. Non sarà contento di sapere che avete lanciato dalla finestra dei bigliettini pieni di insinuazioni maliziose su lui e la bidella. Andate via o sarà peggio per voi!

 Il gruppo allentò la presa e si disperse nei dintorni.

– Non farci caso – riprese la bambina quando le altre se ne furono andate – sono più stupide che pericolose. 

Poi le porse la mano:

– Piacere, mi chiamo Bianca.

– Io sono Egle, grazie.

Franz vide tutta la scena e pensò, in quel preciso momento, che gli angeli hanno gli occhi grandi e i capelli marroni.

Ebbe la stessa identica intuizione ventidue anni dopo, quando la sorte gli mise davanti il volto di Bianca in Campo Santa Margherita, un giorno di fine aprile. 

L’ aveva pensata spesso finché era piccolo, dopo che lui e sua sorella avevano cambiato scuola e la giostra del loro destino aveva continuato vorticosamente a girare. Di tanto in tanto si era chiesto dove fosse finita e se avesse ancora qualcosa di speciale. Non gli era più capitato di provare una simile fiducia, tanto ferma e tanto piena, dettata dalla forza di uno sguardo solo. Forse il desiderio d’aver qualcuno dalla propria parte l’aveva indotto a cullarsi nella memoria di quel gesto, oppure la speranza d’essere compreso l’aveva sostenuto per sentirsi meno abbandonato; sta di fatto che la bambina con gli occhi scuri era rimasta, nella sua infanzia, per lungo tempo un ricordo soave.       

Così, quella volta in cui il caso scelse di farla comparire davanti ai suoi occhi, Franz non perse l’occasione e la seguì, spinto ancora una volta dal bisogno di uno sguardo alleato. Camminò dietro di lei tra la folla, mantenendo le distanze, senza perdere di vista la sua giacca rossa.

Vide che entrava in una bottega di restauro e di lì a poco capì che era il suo posto di lavoro. Lasciò passare qualche giorno, poi si decise ad avvicinarla e con la scusa del quadro, un giovedì di maggio, si introdusse nel laboratorio.  

– Permesso? – disse timoroso.

Vederla comparire dal fondo della bottega fu come salire le scale due a due per arrivare prima, quando il cuore batte forte e in poco tempo ci si trova in cima.

– Vorrei una cornice per questo – aggiunse quando furono vicini.

Chissà se lei sentiva la sua voce che tremava, se percepiva lo scompiglio che provava.  Fece un sorriso per smorzare la tensione, un tentativo di frenar la commozione. Quel nervosismo che forse, anzi sicuramente era esagerato per la circostanza, ma in fondo c’era e c’era in abbondanza, senza bisogno di dovergli dare un nome. 

Bianca prese in mano il quadro per portarlo alla luce e quello che successe fu per Franz una specie di miracolo. Non aveva messo in conto tanto interesse per i suoi numeri, non aveva pensato che lei potesse fare domande così precise sui due cerchi che comparivano nella rappresentazione del tempo e sul pesce disegnato all’interno. In un attimo si sentì sciogliere e annodarsi di nuovo, sfiorato dall’idea di svelare il suo segreto.

Forse lei era in grado di capire, magari poteva ascoltarlo e liberarlo dal peso di quello che sapeva; forse c’era ancora una speranza, per lui, di vivere una vita normale.

Questi pensieri gli stringevano la gola e gli facevano pulsare le tempie, mentre il suo animo inquieto si dimenava tra l’amarezza della rassegnazione e un nuovo desiderio di liberazione. Alzò gli occhi e si accorse che Bianca lo guardava. Nell’incertezza di non saper che dire la invitò a mangiare un gelato l’indomani, col pretesto di parlare dei numeri del quadro. Avrebbe deciso allora come comportarsi, dopo averci riflettuto con calma; al momento era troppo confuso per prendere qualsiasi decisione.

I due fissarono e si salutarono, un po’ scombussolati dall’incontro. Poi lui tornò a casa e si sfilò le scarpe, già slacciate dalla mattina.

Quella sera bevve un Jack Daniel’s e si buttò sul letto, senza neanche cenare. Chiuse gli occhi stordito e aspettò, come sempre, di veder comparire nella sua testa l’immagine di Egle. Era una visione sfocata, in lontananza, in cui a stento si distinguevano le forme. Questa volta, stranamente, la vide camminare e andargli incontro, un passo dietro l’altro verso di lui senza alcuna esitazione. Quando fu vicina poté guardala meglio e si accorse che aveva il volto di Bianca. Il corpo dell’una con la faccia dell’altra: bionda e poi mora, malinconica e sorridente, vestita di rosso e scalza, in una fusione di particolari. 

Si addormentò così, con la bizzarra sensazione di vederle mescolate. 

Franz non disse mai a Bianca che si erano incontrati da bambini e che era entrato nel laboratorio di proposito. Lei, d’altro canto, sembrava non ricordare. 

Avrebbe precisato, qualche tempo dopo, che non era poi così importante: aveva comunque la sensazione di conoscerlo da sempre. 


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