3. Anna
Quella di Anna era stata un’infanzia decisamente particolare.
Aveva un fratello, Libero, di due anni più grande con cui giocava tutti i pomeriggi al rientro da scuola. Nonostante fosse la sorella minore, Anna aveva sempre avuto un ruolo importante e grosse responsabilità perché Libero era un bambino speciale, uno di quei ragazzini fuori dalle righe che assumeva atteggiamenti normali in quasi tutte le circostanze della quotidianità e che ogni tanto, spinto da non si sa quale motivo, si isolava dal contesto e cominciava a fare cose difficili da raccontare. Era come se Libero cadesse improvvisamente in degli spazi di vuoto; esibiva di colpo un’espressione incomprensibile mentre il suo sguardo si perdeva in punti fissi lontano dallo sguardo degli altri, si estraniava e rimaneva zitto per un tempo che nessuno sapeva prevedere finché d’un tratto tornava nella circostanza del reale e diceva qualcosa, spinto dagli stessi incomprensibili motivi che l’avevano azzittito.
Anna era cresciuta con l’abitudine di veder Libero precipitare in quell’isolamento totale e repentino, aveva imparato ad assecondare le sue assenze temporanee e aveva acquisito familiarità con quella mancanza di sguardi e di gesti perché non c’era niente da fare: in quei momenti Libero si trovava da un’altra parte.
Quando succedeva, la bambina prendeva il fratello per mano e continuava a fare quello che stava facendo: camminava, parlava con le persone e faceva i compiti; teneva un occhio avanti e un occhio su Libero per assicurarsi che fosse tutto sotto controllo.
Era un pomeriggio di metà maggio, lui aveva 9 anni e lei 7, quando decisero di andare al parco che era stato appena inaugurato sulla collina in fondo al viale; si diceva che ci fossero grandi scivoli ricurvi, altalene di corda su cui si poteva salire in gruppo e altri giochi tedeschi che in Italia non si erano ancora mai visti. La strada da percorrere era poca e c’era un solo semaforo da attraversare: la mamma dette il suo consenso insieme a mille raccomandazioni.
– Non perderlo di vista- disse ad Anna, e due bambini si incamminarono. Giocarono per tutto il pomeriggio, corsero tra i prati e scivolarono senza sosta sulla sagoma curvilinea delle impalcature tedesche; all’ora del tramonto si avviarono verso casa come avevano promesso. Camminavano e canticchiavano ripensando ai momenti appena vissuti, carichi di euforia e di stanchezza. Avevano addosso un gran senso di pace e nel naso il profumo della primavera, ridevano e si tiravano spintarelle mentre saltellavano per non pestare le righe del lastricato. Anna si fermò di colpo.
-Ho perso il braccialetto!- disse.
-Quando l’hai visto per l’ultima volta?- chiese Libero.
-Sull’altalena ce l’avevo ancora, sono sicura- rispose la bambina mentre ripercorreva le tappe dei loro spostamenti. Anna ripensò ed elencò a voce alta i giochi che avevano fatto, valutando tutte le possibilità. Stava ancora riflettendo quando vide calare sul viso di Libero un’espressione strana, diversa da quella delle altre volte. D’istinto lo prese per mano e lo spinse sul lato della strada, poi rimase a guardarlo mentre lui si estraniava e posava lo sguardo ora a destra ora a sinistra senza una meta precisa. Dopo qualche secondo Libero ruppe il silenzio, continuando a fissare nel vuoto.
-Sull’altalena ci sono 5 milioni, 374 mila 272 funi annodate, il braccialetto potrebbe essere rimasto impigliato mentre scendevi.-
Anna rimase zitta, immobile, senza sapere che cosa pensare. Lentamente portò Libero a casa, tenendolo sempre per mano. Durante la cena il ragazzino riprese a parlare normalmente e raccontò dei giochi nel parco. Anna invece era visibilmente turbata e rimase quasi sempre in silenzio. Dopo mangiato, la bambina aspettò che il fratello andasse a fare la doccia e poi si avvicinò alla mamma che stava rassettando in cucina.
-Una volta mi hai detto che il nonno aveva un talento per la matematica, ricordi?- chiese la bambina.
-È vero- rispose la donna, che si mise a sedere. Anna le raccontò quanto era accaduto. La madre rimase ad ascoltare in silenzio lasciando cadere le braccia sulle gambe come se non avessero peso.
-Domani parlo con la maestra- disse alla fine.
Da quel momento tutto cambiò. Libero fu inserito in un programma speciale per bambini superdotati, frequentava corsi in un istituto all’avanguardia ed era seguito da specialisti che usavano il suo cervello per studiare la mente dei geni. Partecipava a gare di matematica in tutto il mondo sfidando altri bambini speciali come lui e quando vinceva il suo nome compariva sui giornali della città.
Dal canto suo, Libero non sembrava curarsi di tutto quel frastuono, continuava a giocare e a studiare con la stessa intensità; alternava espressioni da bambino e momenti di alienazione senza avvertire la fase del passaggio, come se studiare, perdersi e giocare fossero un tutt’uno. Anna lo guardava in silenzio, affascinata dal suo mondo invisibile e da quella concentrazione innaturale.
–Che cosa vedi, Libero, quando non vedi quello che vedo io?– si chiedeva tra sé e sé. Ma sapeva che quella domanda non avrebbe trovato risposta perché Libero era incapace di spiegare, di farle capire dove andava quando la sua testa non era più lì. Anna guardava quei libri pieni di formule e figure, fissava le cifre e i simboli sperando di trovare qualcosa, magari una porta o un sentiero che le consentissero di seguire Libero almeno per una volta, una volta sola. In certe occasioni Anna provava invidia perché Libero era in grado di sparire dal mondo e di viaggiare in spazi che gli altri non vedevano, senza saperlo possedeva il mantello dell’altrove e nessuno sapeva dov’era.
Se ce l’avessi io – pensava Anna- lo indosserei tute le volte che la mamma mi brontola o quando non ho fatto i compiti, me lo metterei se qualcuno mi prende in giro e ….Puff , svanirei nel nulla lasciando il mio corpo senza reazioni. Via i pensieri brutti, via la paura del buio! semplicemente sparirei lontano dove i pensieri e le paure non esistono…
Ma Anna non poteva capire e continuava a guardare il fratello nei suoi atteggiamenti strampalati.
Qualche anno dopo la situazione si era normalizzata. A 13 anni Libero frequentava diversi corsi di matematica avanzata e seguiva dei programmi speciali; tutti i giovedì pomeriggio andava in una scuola per ragazzi plusdotati, chiamati comunemente gifted, in cui correggeva i compiti che gli erano stati assegnati e prendeva in carico un nuovo problema da svolgere per il giovedì successivo. Non c’erano obblighi e Libero poteva scegliere di non farlo; la scuola aveva nel suo statuto il rispetto per la crescita e per il ritmo naturale di ogni individuo senza forzare l’apprendimento di nessuno. Ciò nonostante, Libero si presentava ogni giovedì con il suo quaderno pieno di calcoli ed erano sempre incredibilmente corretti.
Anna andava a prenderlo alle 19 e si faceva raccontare che cosa avevano fatto; le piaceva stargli accanto perché sentiva di essere speciale: lei era l’unica che riuscisse ad avvicinarlo o a tenerlo per mano e si sentiva privilegiata.
-Mi hanno detto che se risolvo questo problema per giovedì posso andare alle gare di Parigi- Disse il ragazzino mentre tornavano a casa.
-Di che si tratta?- Chiese lei, che era sempre interessata anche se non poteva capire.
-È un quesito applicato alla meccanica dei fluidi, una cosa abbastanza difficile. Ho già cominciato a pensarci ma per ora non ho trovato un’idea. Forse con le equazioni differenziali…non so, dovrei scrivere un sistema…fare un diagramma…
-Ci penserai dopo, hai tutto il tempo- Ribatté lei. Ma il fratello era rimasto qualche passo indietro, assorto nei suoi pensieri.
Erano sulle strisce, stavano attraversando il viale. Dall’incrocio laterale comparve all’improvviso una macchina, un Suv nero con i finestrini scuri che viaggiava a tutta velocità. Anna era già abbastanza vicina al marciapiede e si girò d’istinto per cercare il fratello. Libero era immobile in mezzo alla strada con l’espressione assente.
-Libero noooo!!- Gridò.
Corse verso di lui e lo tirò per un braccio; la macchina non fece in tempo a frenare e la investì.
Quello che successe dopo sono ricordi di ambulanze, corridoi bianchi, luci dell’ospedale. E poi silenzio, tanto silenzio.
Libero che le stava accanto e le teneva la mano, la mamma che piangeva di spalle, i dottori che passavano e parlavano tra loro.
Anna si era svegliata ma le sue gambe non camminavano più.
Passarono due, tre, quattro mesi. La bambina non parlava, non diceva niente; guardava fuori dalla finestra e tornava nel suo riserbo, al centro del dolore.
Avrebbe voluto smettere di pensare, spogliarsi dei ricordi e fuggire lontano. Avrebbe voluto sparire nel nulla, uscire da quella stanza e da se stessa, lasciarsi avvolgere dal buio.
Una mattina le venne in mente il mantello dell’altrove, lo spazio impenetrabile in cui Libero si perdeva quando si estraniava da lei. Allora si girò verso il fratello, che le stava accanto giorno e notte, e finalmente lasciò uscire qualche parola:
-Portami un libro di matematica- disse.
E Libero glielo portò.