4. L’amore che cos’è
Da quando Libero le aveva portato il libro, Anna studiava in silenzio.
All’inizio non ci capiva granché, la matematica non le era mai parsa molto attraente e ci volle del tempo per prendere consapevolezza di sé in quel gioco di operazioni e di figure. Ma Anna studiava lo stesso perché cercare di comprendere era un modo per isolarsi e per allontanare i pensieri più neri.
Dopo un anno di sforzi cominciò ad apprezzare quel filo sottile che guidava il suo ragionamento e divenne in grado di esplorare nuovi settori; familiarizzò con le regole dell’Algebra e cominciò a risolvere problemi più complessi.
Lo studio continuava ad essere per lei una fonte di distrazione, un luogo in cui rifugiarsi lontano dalle cure, dalle visite mediche e dal sacrificio della sedia a rotelle.
Quando apprendeva aveva la sensazione di sollevare i piedi da terra e di muoversi in una dimensione immateriale in cui poteva spostarsi senza l’uso delle gambe, quelle gambe che da dopo l’incidente non sentiva più sue e che la facevano sprofondare in una solitudine soffocante. Libero le stava vicino e le spiegava, a suo modo, i passaggi più difficili. Rispondeva alle domande sui metodi e sui concetti, aspettava paziente e interveniva lì dove lei si bloccava. Il più delle volte forniva chiarimenti poco comprensibili ma Anna era abituata ad ascoltarlo e sapeva decifrare le sue frasi sgrammaticate.
Perché Libero, che era un genio con i numeri, aveva invece grosse difficoltà con le parole. La sua mente sembrava incapace di strutturare le regole del linguaggio naturale, confondeva i costrutti e sbagliava i termini, soprattutto se si trattava di voci composte o che potevano essere utilizzate con significati diversi. La ragione sociale era per Libero il buon senso comune, il chiodo fisso era un chiodo fissato bene alla parete e l’asso nella manica era una carta che, non si sa per quale motivo, qualcuno portava con sé nel polsino. Si era chiesto a lungo che cosa fossero la gatta da pelare e le mani bucate, senza mai riuscire a fornire una spiegazione accettabile. I modi di dire e le metafore erano per Libero assolutamente incomprensibili, forme di comunicazione che aveva imparato ad accettare senza farsi troppe domande perché non avevano alcun significato oggettivo. La prima volta che Libero aveva sentito una frase del genere era a scuola e frequentava la seconda elementare; alzò la mano e chiese alla maestra perché esortava i bambini ad avere la testa sulle spalle visto che, tra la testa e le spalle, tutti, ma proprio tutti, avevano il collo. La maestra cercò di spiegare con dolcezza il senso della frase, ma dopo tre ore e venti dovette abbandonare il proposito e alla fine uscì dalla scuola con un gran mal di testa.
Libero era così, tanto riusciva a dare e tanto riusciva a togliere.
Mescolava termini diversi e coniava, senza saperlo, nuove parole che possedevano un significato del tutto soggettivo; si perdeva nei discorsi e combinava i modi di dire in un’accozzaglia difficile da sgrovigliare. Ogni tanto prendeva qualche fissazione per un vocabolo e lo ripeteva ossessivamente; per un certo periodo aveva detto un numero imprecisato di volte ‘esecrabile’ o ‘errabondo’ finché a un certo punto, nessuno sapeva perché, era passato a ‘piromane’ e poi a ‘promiscuo’. Fissava queste parole nella sua memoria e di tanto in tanto, soprattutto quando era sotto stress, le tirava fuori usandole impropriamente in qualche contesto personale e assai poco comprensibile.
In città era molto conosciuto, tutti sapevano che aveva una forma di ritardo in certe abilità sociali ed espressive, ma la fama per le sue doti matematiche lo aveva reso celebre e interessante; il successo aveva in qualche modo reso desiderabili anche i suoi difetti. A Libero non dispiaceva, per la strada le persone lo chiamavano per nome e qualcuno gli chiedeva un selfie da pubblicare su Facebook o su Instragram. Lui acconsentiva, si faceva scattare la foto e poi tornava nei suoi pensieri a ragionare di matematica e a ripetere vocaboli che non riusciva a capire.
A diciannove anni gli successe qualcosa di improvviso e travolgente: in un giorno d’autunno Libero si innamorò.
La fortunata era Adele, una ragazza esile e cordiale che lavorava al banco della gastronomia in un piccolo supermercato del quartiere. Si era trasferita in città dai primi di Settembre in cerca di un’occupazione stabile e di una vita più emancipata, lontano dalla chiusura e dal chiacchierio bigotto della campagna.
Adele aveva una passione per i film con Audrey Hepburn, aveva visto 36 volte Sabrina, 43 volte Colazione da Tiffany e 54 volte Vacanze Romane; sapeva i dialoghi a memoria e li serviva al banco del supermercato insieme all’insalata russa e al Vitel Tonné addolcendo, con la sua voce carezzevole, il tempo di attesa dei clienti.
Quando vide Libero per la prima volta, Adele rimase senza parole.
Aveva sentito parlare di quel ragazzo particolare che sapeva fare calcoli lunghissimi senza l’uso della calcolatrice e che vinceva gare di matematica in tutto il mondo; quello che non sapeva, però, era che Libero fosse tanto bello.
Quel giorno si trovò davanti, dall’altro lato del bancone, un ragazzo alto e pieno di riccioli; un giovane magro dal portamento un po’ ricurvo che aveva il naso dritto come quello di un attore e il sorriso sexy da rotocalco americano. L’espressione, forse, non era proprio centrata, ma le sembrò un particolare del tutto trascurabile.
Quando si videro ci fu qualche secondo di smarrimento, poi lui cominciò a parlare.
-Buon giorno- disse, ostentando una certa disinvoltura per niente naturale.
-Buon giorno- balbettò lei.
I due rimasero a guardarsi per 5 minuti senza dire altro; dopo un po’ i clienti in coda cominciarono a borbottare e lui chiese la prima cosa che gli venne in mente: 6 etti di gorgonzola piccante. Lei per sbaglio gliene dette un chilo ma lui non se ne accorse, prese il gorgonzola e si fece da parte.
Alla chiusura del supermercato Libero aspettò Adele all’angolo della strada; Cominciarono a camminare senza dire niente, passeggiarono in silenzio per un’ora e un quarto finché lui la riportò sula porta del negozio, lì dove si erano incontrati. Successe così per cinque giorni consecutivi finché, il sesto giorno, Libero le prese la mano. Lei si fece coraggio e gli propose di salire in casa sua per guardare un film; lui si fece coraggio e rispose di sì.
Scelsero Vacanze Romane e si misero seduti una accanto all’altro su un divano a fiori marroni che aveva dato il meglio di sé una ventina di anni prima, al momento dell’esordio della fantasia, e ora sopravviveva alla meno peggio con un certo sforzo di dignità.
Durante il film, Adele ripeteva piano i dialoghi in perfetta sincronia con i tempi degli attori, tenendo lo sguardo fisso sulla televisione. Libero la guardava e ascoltava quella voce dolcissima e sottile come la figura della ragazza, che vedeva in controluce.
Ascoltava e scivolava sul divano, scivolava e ascoltava, vittima di cedimento interiore che rendeva morbida ogni cellula del suo corpo fino a fargli raggiungere la liquefazione.
All’improvviso ebbe la sensazione che quei dialoghi fossero tutte le domande della sua vita; improvvisamente ebbe l’incontrollabile sospetto e poi l’irragionevole certezza che le parole di Adele, su quei dialoghi, fossero tutte le risposte.
Libero si avvicinò, lei si girò di colpo. Si guardarono, poi si guardarono e si guardarono ancora, finché lo sguardo divenne fuoco e bruciarono insieme.
Non fece in tempo Libero
a indagare sull’amore;
a chiedersi cosa fosse
che gli incendiasse il cuore.
Sentì un mare arrivare
un’onda incandescente;
lui non poté che entrare
e si immerse interamente.
Pensò che tutti i pezzi,
le cellule del corpo
avevan navigato
per giungere a quel porto.
Si era rimescolato
ogni suo componente,
legato in una danza
di forza sorprendente.
Conobbe il desiderio,
la gioia mai avvertita
di far felice Adele
a costo della vita.
Guardò il suo sguardo perso
in quel mare di emozioni,
poi la seguì attraverso
le sue costellazioni.
Comprese proprio allora
sull’onda del momento
che amare forgia l’uomo
e non un suo frammento.
Capì che la fortuna
Il dono assai più grande
era di aver risposte
quante son le domande.
La baciò sulla bocca
la tenne per la mano
la cinse con dolcezza
tra i fiori del divano.
Quella sera Libero tornò a casa tardi. Anna lo aspettava in camera sua per correggere i compiti.
Quando lo vide entrare capì che era successo qualcosa e lo invitò a fare due chiacchiere.
Libero si mise a sedere e cominciò a parlare.
Raccontò tutto d’un fiato che era stato a casa della ragazza del gorgonzola che l’aveva rimescolato, che gli era sembrato di avvampare ma non era stato esecrabile, questo no, anche se forse un po’ promiscuo e comunque ora era errabondo e innamorarso. Disse senza filtri e senza omissioni che lei l’aveva guardato in modo incendiario e che lui si era comportato da piromane, riferì di come lei gli avesse infilato la mano tra i riccioli e lui si fosse sentito scompaginato in un tutt’uno con se stesso, ma soprattutto con lei. Raccontò concitato che erano caduti in un nudifragio, che avevano avuto le vertigini nel fuoco e che alla fine lui, forse per spegnere l’incendio, era esondato.
Anna non trovò le parole per commentare, rimase zitta a bocca aperta per qualche minuto.
-State attenti- riuscì a dire dopo un po’, consapevole del fatto che Libero non aveva ricevuto alcuna educazione in ambito sessuale .
-Stai tranquilla- rispose il fratello- stiamo attenti-.
Stettero così attenti che il mese dopo Adele era incinta.
Nacque un bambino e Libero, a vent’anni, diventò padre. Adele scelse per il nuovo arrivato il nome Greg, come Gregory Peck.
In molti pensarono che Libero e Adele si sarebbero lasciati di lì a poco perché lui era un ragazzo strano e perché erano entrambi troppo giovani. Invece, a dispetto delle statistiche e delle più realistiche previsioni, come qualche volta succede nei romanzi più sconclusionati, rimasero accanto per sempre.