25. Tutti per Uno

Il 25 gennaio alle 15, Anna e Sauro scesero nella Sala Toscanini del Gran Hotel Majestic seguiti da Libero e da Adele. 

C’erano persone ovunque; le sedie all’interno erano occupate fino all’ultima fila e tutto intorno si accalcavano le telecamere delle più note emittenti internazionali. Fuori dall’albergo, una gran moltitudine di curiosi cercava di capire che cosa stesse succedendo; il via vai di giornalisti aveva sconvolto la tranquilla cittadina di Verbania e aveva agitato le acque serene del Lago Maggiore. 

Quando Libero entrò nella sala, cadde improvvisamente il silenzio e tutti si voltarono a guardare.

-È lui, è lui… – si sentì mormorare.

-Chissà dove è stato tutti questi anni.

-Quella col cappello è la moglie, l’altra è la sorella.

-E quello che spinge la sedia a rotelle, chi è?

Le voci nel sottofondo cominciarono a sovrapporsi generando un suono diffuso e costante mentre i quattro avanzavano in silenzio per raggiungere l’estremità della sala. Adele si sistemò in una delle sedie riservate accanto a Greg e a Mia; Libero e Anna arrivarono sulla pedana e presero posto al tavolo, vicino ai microfoni; Sauro rimase in piedi dietro Anna, la guardò e le annuì con un mezzo sorriso mentre si accostava al muro con le braccia incrociate.

Alla loro sinistra, un uomo era pronto per la traduzione simultanea; in prima fila i dieci matematici più famosi del momento erano schierati l’uno accanto all’altro e aspettavano di sapere.

Anna si guardò intorno, c’era più gente di quanto avesse immaginato. Fece un sospiro profondo e poi prese il microfono.

-Buon giorno a tutti, benvenuti.

-Good afternoon, welcome everybody – ripeté il traduttore.

Il mormorio cessò e tutti rimasero immobili ad ascoltare. Anna saltò i convenevoli e andò dritta al punto, come era nel suo stile. 

-Il motivo per cui vi abbiamo chiesto di venire qui oggi è legato al grande matematico Bernhard Riemann, che proprio a Verbania ha trovato la morte nel 1866.

La sala, che era già in silenzio, con quelle parole parve sprofondare in un improvviso stato di vuoto; l’attesa sospendeva i pensieri e rendeva la concitazione palpabile.

-Voi tutti sapete che Riemann è morto molto giovane – disse guardando i matematici – e che ha lasciato un problema aperto riguardo alla ricerca dei numeri primi. L’enunciato sulla funzione Zeta è ancora oggi un’ipotesi perché nessuno è stato in grado di fornire una dimostrazione. Sapete anche che la governante di Riemann bruciò gli appunti del matematico dopo la sua scomparsa, nel tentativo dissennato di fare ordine tra le cose della sua stanza. La ragione per cui siete qui oggi, alla presenza delle testate giornalistiche e dei media, riguarda proprio gli appunti di Riemann. 

La donna fece una pausa e poi riprese a parlare.

-Libero Martinelli, mio fratello, è entrato in possesso di un manoscritto, un quaderno di inestimabile valore che è sfuggito al rogo della governante.

Non appena il traduttore ebbe finito di parlare, un boato di voci esplose nella sala; un rimbombo di commenti accompagnò il fragore della notizia. 

Dalla prima fila si alzò il matematico Georg Meikner.

-Where he found it? Dove l’ha trovato? – Chiese con impeto.

Altre voci si sollevarono nella folla – Dov’è adesso? Chi ce l’ha?

-È per questo che Martinelli era scomparso? – volevano sapere i giornalisti. 

Le telecamere zoommavano i volti sorpresi degli studiosi e riprendevano in diretta le scene dell’annuncio. Viste col distacco dell’obiettivo, tutte quelle persone in agitazione ricordavano il frenetico via vai delle api in prossimità dell’alveare subito prima di un forte temporale. L’elettricità dell’atmosfera passava di occhio in occhio, di piglio in piglio, di stupore in stupore.

Anna aprì la mano e batté l’anello sul tavolo, ripristinando il silenzio. Sauro appoggiato al muro osservava la situazione. In quel momento un uomo si alzò dal fondo della sala e si fece largo tra la folla. Era un signore alto e brizzolato che aveva indosso un impermeabile beige.

-Posso rispondere io – disse quando fu vicino alla pedana. 

Tornò improvvisamente il silenzio e tutti rimasero ad ascoltare. Libero si drizzò sulla sedia, mentre il suo sguardo si tingeva di sdegno e di amarezza. Sauro fissò l’uomo con l’impermeabile e scostò le spalle dalla parete, d’istinto si posò la mano sul petto e toccò il quaderno che aveva nascosto nel giubbotto. 

-È Giuliano Silvi! – sussurrò Mia a Greg mentre gli afferrava la mano.

Silvi si dispose di lato in cima alla sala in modo che potessero vederlo tutti e cominciò a parlare.

-Ho una storia da raccontare – annunciò mentre guardava i due fratelli sulla pedana.

Libero gli fece cenno di continuare e lui proseguì.

-Mi chiamo Giuliano Silvi e sono un collega di Libero Martinelli, oltre che un suo vecchio amico. Mi correggo – aggiunse dopo una breve pausa – sono stato suo amico fino al giorno in cui l’ho tradito. 

Nella sala si sentì un sussulto soffocato, le telecamere si avvicinarono e Silvi continuò a parlare con il linguaggio forbito che da sempre caratterizzava i suoi interventi in pubblico.

-Consentitemi una breve digressione, ho bisogno di fare qualche premessa che potrà aiutarvi a comprendere. Come molti dei presenti qua dentro, io amo la matematica. È difficile spiegare come ci si sente quando si scalano le vette del ragionamento matematico, solo chi si è addentrato nel percorso può riuscire a capire; proverò tuttavia a descrivere quanto è successo e a darvi una misura dello sconvolgimento che ho provato. Nonostante l’amore per la materia, la mia storia personale è stata un susseguirsi di insuccessi. Le mie vicissitudini, a onor del vero, erano bizzarramente iniziate in modo  incoraggiante: da ragazzo ero molto bravo negli studi, oltre che estremamente diligente. Elogiato da tutti gli insegnanti, mi convinsi di avere le qualità giuste per diventare un grande scienziato e dopo il diploma decisi di iscrivermi al corso di laurea in Matematica, sicuro che mi attendesse una grande carriera. Dovetti subito ricredermi, in breve tempo capii che la mia predisposizione non era altro che una forma di intelligenza ben organizzata ma tutto sommato ordinaria, esercitata da una grande forza di volontà e da un’ambizione considerevole.

In quel periodo, proprio durante i corsi per i primi esami, conobbi Libero Martinelli. La differenza tra noi fu subito imbarazzante, lui rappresentava tutto quello che io avrei voluto essere e che non sarei mai diventato. Era intuitivo, versatile, geniale. Io arrancavo dietro alle sue supposizioni, spesso senza riuscire a comprenderle fino in fondo. 

Diventammo amici, gli offrii il mio tempo e il mio sostegno in cambio di una sola cosa: la condivisione dei suoi ragionamenti. Pendevo dalle sue labbra, ascoltavo ogni sua parola sperando di cogliere un processo logico che inesorabilmente risultava familiare a lui e ostico per me, ripensavo alle sue congetture e mi chiedevo, tutte le volte, come avesse fatto a ipotizzarle. 

Il tempo passava e noi continuavamo a frequentarci. Cominciammo a uscire anche nei giorni di festa, con le nostre famiglie; eravamo uniti e io mi fregiavo della sua notorietà. Mi illudevo del fatto che qualcuno, vedendoci insieme, potesse pensare che eravamo della stessa levatura. Tutto questo fino a quel giorno di settembre di dodici anni fa. 

Ricordo esattamente come andarono le cose: era per me un brutto periodo, stavo vivendo l’ennesimo insuccesso accademico e mia moglie mi aveva appena lasciato. Andai da Libero per cercare consolazione, certo del fatto che mi avrebbe ascoltato. Ero carico di rabbia e di frustrazione, appena entrato nella sua abitazione sentii forte la differenza tra la sua buona sorte e la mia sfortuna: nella sua casa regnava l’armonia mentre nella mia vita c’era ovunque il fallimento. Sapevo che stava lavorando a qualcosa di grande, giravano in facoltà delle voci su alcune sue scoperte e io ero logorato dall’invidia; lui non si era confidato con me e io invece pretendevo di sapere. Durante la nostra conversazione, accadde una circostanza che mi parve mandata dal destino, suo figlio Greg entrò nella stanza per dirgli che sua sorella Anna lo stava cercando; così fu costretto a uscire. Fui colto dalla sorpresa e dalla concitazione, avevo improvvisamente la possibilità di frugare tra le sue carte e di capire che cosa avesse per le mani. Dovevo scegliere sul momento se aspettare il suo ritorno o passare all’azione, non c’era tempo da perdere. In quell’istante di esitazione, quando ancora ero nella terra di mezzo tra il bene e il male, mi venne in mente un episodio; una voce diabolica che mi fece precipitare nelle fiamme più alte dell’inferno. 

Rividi una scena accaduta qualche giorno prima, nel cortile dell’Università. Camminavo per andare in biblioteca, solo e ignorato da tutti come frequentemente succedeva nell’ultimo periodo, quando fui avvicinato da un collega, un uomo che conoscevo poco e che era noto per la sua torbida carriera.

-Come stai? È tanto che non ci vediamo – Mi disse con tono affabile.

Nonostante la sorpresa, sentii subito che il suo saluto, in quel momento di solitudine, muoveva su di me una leva subdola e intimamente narcisista, aveva l’effetto di farmi sentire considerato e meno trasparente.

-Bene grazie – risposi mentendo – ho avuto un po’ da fare.

-Hai notizie di Martinelli? 

-Non molte, non lo vedo da qualche tempo.

-Senti… – disse abbassando la voce – si dice cha stia lavorando a qualcosa di grosso.  C’è qualcuno disposto a pagare molti soldi per mettere le mani sui suoi risultati. Ce n’è abbastanza per diventare ricchi entrambi, pensaci.

Lui si allontanò e io ripresi la mia strada verso la biblioteca. Non ci pensai per un po’, finché quel giorno Libero uscì dalla stanza e mi lasciò solo con i suoi documenti. In un istante vidi la luce accecante del potere e mi sentii giustificato a procedere, indispettito dal fatto che lui non mi aveva reso partecipe delle sue scoperte. Quella scelta fu per me un ignobile riscatto, un modo per pareggiare i conti delle nostre differenze; mi alzai di getto e mi precipitai furtivamente sulla sua scrivania. 

Quello che vidi mi lasciò senza parole.  Trovai un paio di lettere, delle missive in cui Enrico Betti comunicava a Beltrami che era in possesso del quaderno di Riemann…. Il quaderno di Riemann! Mi sentii cedere le gambe e fui travolto da un vortice di pensieri; Libero aveva trovato il documento, aveva in mano la possibilità di scoprire la relazione più cercata dell’ultimo secolo! Ancora una volta, la sorte aveva premiato lui e affossato me. Fui accecato dall’acredine e decisi di vendere quell’informazione a caro prezzo, nel tentativo balordo di farmi giustizia da solo.  Di lì a poco Libero partì, scappando da coloro che io gli avevo messo alle costole. In un primo momento non mi dispiacque e anzi, mi sentii stranamente compiaciuto: per la prima volta ero stato capace di fare qualcosa che aveva prodotto delle conseguenze tangibili, in qualche modo avevo condizionato il corso degli eventi. Nei giorni a seguire mi recai in casa sua, aprendo con le chiavi che proprio lui mi aveva dato in piena fiducia, e invano cercai il quaderno. Trovai invece le lettere di Betti, le presi e le portai nella mia abitazione.

Quell’inverno sprofondai in uno stato di cattiveria e di cinismo, il tempo passava e io diventavo sempre più solo e codardo. Uscivo di rado, seguivo da lontano la vicenda della sparizione di Libero e della sua famiglia, ero ignorato da tutti e continuavo a galleggiare nella palude dell’indifferenza. Cominciai, poco a poco, a sentire la mancanza della famiglia che un tempo mi aveva accolto, provai una sorta di nostalgia per la loro presenza e per il loro calore. Fu in quel periodo, sospeso tra i fuochi dell’ignominia e dell’apatia, che cominciai a riflettere sull’etica della scienza. 

Riemann aveva compiuto le sue ricerche per amore dell’intelletto e del sapere, i servizi segreti volevano quelle informazioni per proteggere gli Stati dagli attacchi informatici, io  nel mio piccolo avevo utilizzato quello che sapevo per ottenere denaro e asservirmi al potere. Erano tre diversi modi di gestire la stesso risultato, tre differenti approcci alla conoscenza. Un uomo era stato capace di cambiare con le sue scoperte la rotta del pensiero collettivo, un altro uomo l’aveva fermato opponendo al suo duro lavoro lo sforzo di un semplice dito. Questo contrasto tra i due comportamenti si tradusse, dentro di me, in una confronto tra il bene e il male; l’opposizione netta tra la fatica di costruire e la facilità di distruggere divenne l’emblema di una lotta eterna tra posizioni opposte: da una parte la vita, dall’altra la morte. Mi parve improvvisamente chiaro che la luce e le tenebre, come la pace e la guerra, erano un tutt’uno con l’essenza dell’uomo: quanto più grande era il progresso, tanto più dura poteva essere la disfatta. Io avevo forzato il destino dalla parte del male ma ero solo un burattino nelle mani delle tenebre, non avevo ottenuto quello che volevo e, ancora una volta, mi trovavo ad essere nessuno. Provai un moto di rivalsa, il desiderio di sovvertire nuovamente le cose e prendere in mano le redini del mio futuro. Mi ero schierato dalla parte della cattiveria e dell’abominio, se volevo lasciare il mio nome scolpito nella storia occorreva che il bene reagisse, solo in quel modo avrei combattuto la mia battaglia per l’immortalità. 

Così decisi di dare alla sorte un’opportunità, misi le lettere in una scatola insieme ad altri oggetti rinvenuti nell’armadietto di Libero all’università e mi proposi di consegnarle a chi fosse venuto a trovarmi.

Il giorno in cui Greg e la sua amica suonarono alla mia porta, capii che era giunto il mio momento, gli consegnai la scatola e cominciai ad aspettare.

Con quelle parole Giuliano Silvi fece una pausa, tutti rimasero in attesa.

Mia prese d’istinto la mano di Greg e ripensò a quel giorno, quando erano andati nell’appartamento di Silvi per cercare informazioni. Non avevano sospettato, allora, che quell’uomo fosse la causa di tutte le loro sventure; nulla aveva fatto presagire che proprio lui fosse coinvolto in quella storia.

Mia sentì un brivido sottile lungo la schiena. C’era qualcosa, in quel racconto di follia, che la poneva in uno stato di allerta; la lucidità di quella descrizione la rendeva stranamente inquieta. Guardò Greg e comprese il suo stato d’animo: la sua faccia cerea esprimeva perfettamente il turbamento che provava. Gli strinse la mano, prima ancora di capirne il motivo; lui la guardò e lei gli fece cenno di andare. Greg si alzò senza dire niente, mosso da una forza che non avrebbe saputo descrivere. Si fece largo tra la folla e prese posto dietro le spalle dell’uomo, immobile e silenzioso. 

Silvi, ignaro di quello spostamento, riprese a parlare.

-Forse vi chiederete come mai ho deciso di venire qui oggi a raccontare tutto questo – disse – il motivo è fin troppo semplice. 

Su quelle parole Anna si scosse, colta da uno strano presentimento. Guardò Libero e i suoi occhi si tinsero di paura. Sauro si scostò dal muro e la osservò, seguì il filo dei suoi pensieri e improvvisamente gli fu tutto chiaro. 

Quella che seguì fu la storia di una attimo concitato, un concatenarsi di azioni che si annodarono l’una con l’altra in un groviglio di corpi e di suoni.

Sauro fece uno scatto repentino e si lanciò sul tavolo, Silvi tirò fuori un’arma e la puntò su Libero. Anna si lanciò per fare da scudo, ma il poliziotto arrivò prima e prese il colpo in mezzo al petto.

Greg intervenne e colpì Silvi sulla testa, l’uomo capitolò e cadde, lasciando la presa dell’arma.

Tutti urlarono, le telecamere inquadrarono i volti sconcertati e ripresero ogni scena. Entrò la polizia e mise a Silvi le manette, il servizio di vigilanza ripristinò l’ordine nella stanza.

Sdraiato sul tavolo della conferenza, Sauro aprì gli occhi. Si sbottonò la camicia e aprì il giubbotto antiproiettile. Anna, che pure sapeva del giubbotto, tirò un sospiro di sollievo. 

Adele si alzò per raggiungere la pedana, passò vicina a Silvi e gli sussurrò: 

-Io le chiavi non te le volevo dare, non mi sei mai piaciuto. Il tempo del giudizio per te è già arrivato; hai dentro solo rabbia, sei povero d’amore.

Poi si girò e si diresse verso gli altri membri della famiglia. 

Molte persone erano uscite dalla sala ma la maggior parte era ancora lì, con la sensazione di far parte della storia. Tra loro, i matematici attendevano sconvolti ma composti; il quaderno di Riemann non era ancora venuto allo scoperto. 

Sauro tirò fuori dal giubbotto un cumulo di carte sbriciolate, un ammasso di fogli ridotti a coriandoli dallo sparo.

I matematici sbiancarono, Libero trasalì e si sentì mancare; si lasciò andare sulla sedia e si mise le mani nei capelli.

Anna si avvicinò al microfono e prese la parola.

-L’avevo fatto scannerizzare – disse guardando gli studiosi – c’è una copia per ciascuno di voi.

Così le ricerche di Riemann arrivarono finalmente dove dovevano arrivare, nelle mani della Scienza. Da quel momento, tutti avrebbero potuto studiare i suoi appunti, tutti avrebbero potuto confrontarsi con i suoi pensieri.

Non c’erano il bene e male nelle ricerche del matematico, non c’era l’etica di un utilizzo improprio. C’erano la brama di conoscere, il tentativo di trovare delle relazioni alte come le nuvole del cielo, il sogno di attraversare lo specchio ed entrare in un mondo divino.

I membri della famiglia Martinelli si strinsero l’uno con l’altro, abbracciando anche Sauro e Mia. Avevano lottato, tutti insieme, per salvare uno di loro; avevano messo in gioco le loro risorse e le loro energie perché quel giorno non mancasse proprio nessuno. Adesso erano lì, sulla pedana, in fila come le perle di una collana preziosa.

C’erano il Perdono e la Giustizia, la Speranza e il Futuro; c’era la Fede col cappello verde e in cima a tutti c’era lui, l’esempio più bizzarro e più indomabile di collegamento tra le idee: il Libero Pensiero. 


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