La consapevolezza e il caso
Le case lungo i binari del treno mi hanno sempre incuriosito.
Si offrono come visuale fulminea a una moltitudine di sguardi distratti, catturano per qualche istante gli occhi spostati dalla velocità del vagone e li guidano verso la stazione per poi lasciarli ripartire con mezzi differenti. Altri occhi percorrono gli stessi binari in senso opposto, lasciano la città e danno una scorsa rapida mentre fanno accomodare sui sedili corpi e oggetti per il trasferimento.
Mi sono sempre chiesta se gli inquilini di quelle abitazioni avessero uno speciale senso del viaggio, se il panorama che vedono dalle finestre influenzasse la loro percezione della realtà esattamente come il nostro scenario quotidiano condiziona noi.
Il movimento accompagna le loro vite in ogni istante; vedono scorrere sagome e valigie in un flusso continuo che non consente di fissare le espressioni e che dei visi lascia solo l’idea.
Si dice che vivono sui binari ma in realtà abitano un quadro futurista che pone la velocità al centro di ogni cosa; il presente è l’istante in cui il treno passa sotto le loro finestre, l’attimo in cui il rumore è massimo e poi di nuovo si allontana.
Questi pensieri accompagnavano il mio sguardo mentre entravo alla stazione di Milano Centrale un estivo martedì di luglio.
Ero diretta a casa di Edoardo Boncinelli, genetista di grande fama e di grandissimo valore che mi aveva concesso un po’ del suo tempo per un’intervista.
Avevo con me delle domande sui neuroni, piccole e grandi curiosità su come sia possibile che queste cellule del sistema nervoso facciano di noi tutto quello che siamo fino a renderci unici come specie e come singoli individui.
Ho suonato il campanello e mi sono presentata, ringraziando lui e sua moglie della cortesia.
– Parli decisamente fiorentino – mi hanno detto subito.
– Decisamente – ho confermato io.
– Dunque, che cosa vuoi che ti racconti? – ha proseguito lui.
– Se per te va bene comincerei dal sistema nervoso centrale, facendo un quadro generale con qualche informazione che ho trovato qua e là. A partire da lì vorrei approfondire delle questioni che ho trovato nel tuo libro.
– Ti ascolto – ha commentato sorridendo.
– Dunque, dimmi se sbaglio. Io ho capito che il sistema nervoso centrale è l’insieme di organi e strutture che ci consentono di analizzare le informazioni provenienti sia dall’ambiente esterno che da quello interno all’organismo, per creare poi delle azioni di risposta.
Di fatto ci mette in contatto con il mondo e ci consente di controllare alcuni dei meccanismi del nostro corpo, ricevendo e rispondendo ai segnali che provengono dalle parti annesse ai sensi. In poche parole, i sensi inviano delle informazioni che passano dai nervi del sistema periferico e arrivano, appunto, a quello centrale che le elabora per produrre le reazioni.
Fino a qui va bene?
– Sommariamente sì. Sai altro?
– Come no! È composto dall’ encefalo, la parte che contiene il cervello, e dal midollo spinale, una specie di cilindro posto nella colonna vertebrale che trasporta i messaggi in entrata e in uscita tra l’encefalo e il resto del corpo.
L’encefalo processa e interpreta le informazioni raccolte dal midollo spinale e attiva diverse funzioni tra cui movimenti, pensieri, sensazioni ed emozioni. Arrivo dunque alla mia prima domanda.
Come fanno questi dati a passare da una parte all’altra del nostro corpo?Puoi raccontarlo ai lettori di Buongiorno Matematica? In questo preciso momento hanno il naso puntato sullo schermo e sono curiosi di vedere dove si va a parare. Che dici – ho aggiunto dopo una breve pausa – si può vedere col naso?
– Bisogna avere molta fantasia! – ha detto lui ridendo – di certo c’è che il naso è sempre nella direzione degli occhi. Poi ha preso a parlare più seriamente.
– Dunque, tutte le informazioni che passano dai sensi al sistema nervoso viaggiano attraverso uno specialissimo mezzo di trasporto: i neuroni. Da sole o legate l’una con l’altra, queste cellule hanno la funzione di comunicare tra loro e con il mondo circostante, dando luogo al segnale nervoso. Per capire quello che succede occorre sapere come sono fatti. Un neurone tipo è una cellula a forma di stella che possiede moltissime propaggini.
La parte centrale, il soma, contiene il nucleo cellulare con il DNA. Dal soma partono due diversi tipi di diramazioni, di solito poste ai due poli opposti: i dendriti, che sono tanti, piccoli e ramificati, e l’assone, un unico corposo prolungamento. Succede questo: un segnale elettrico giunge al neurone dai dendriti, passa dal corpo cellulare e se ne va lungo l’assone per passare poi ai dendriti del neurone successivo. Si dice che la cellula nervosa è polarizzata: la corrente la percorre in un’unica direzione, proprio come la corrente di un qualsiasi dispositivo elettrico. Dopo che il segnale ha attraversato il neurone, perché sia possibile passare a quello successivo, deve subire una trasformazione. L’impulso elettrico non può essere trasmesso direttamente in quanto tra un neurone e l’altro non c’è continuità fisica: le cellule nervose sono separate da un piccolissimo spazio vuoto.
Succede allora questo: il segnale elettrico viene trasformato in segnale chimico e passa al neurone successivo attraverso due piccolissime membrane, poste rispettivamente sull’assone del neurone di partenza e sui dendriti del neurone di arrivo: le sinapsi. La membrana presinaptica, quella del neurone precedente, in qualche modo trasforma il segnale da elettrico a chimico; la membrana postsinaptica, che appartiene al neurone successivo, riceve il segnale chimico e lo ritrasforma in elettrico, in modo che questo possa attraversare il nuovo neurone. Le sostanze chimiche poste nella fessura sinaptica tra i due neuroni sono dette neuromodulatori e sono contenute in minuscoli pacchetti chiamati vescicole sinaptiche. Spesso gli analgesici o gli psicofarmaci agiscono proprio su questi passaggi, in qualche modo inibiscono i neuromodulatori per far sì che il comando del dolore non arrivi al cervello.
– Mi chiedevo – ho chiesto io – visto che i neuroni sono così tanti, in base a quale fattore si stabiliscono i collegamenti?
– Quella che poni è una questione molto importante su cui la scienza sta ancora indagando, in effetti i neuroni sono proprio tanti! Ne esistono quasi cento miliardi e ciascuno di questi è connesso con gli altri con una media di diecimila contatti sinaptici: abbiamo, in totale, un milione di miliardi di connessioni! Ecco, noi siamo in ogni istante il risultato di questa fittissima rete di segnali.
In base alla quantità di neuroni con cui l’assone è collegato e all’efficienza dei collegamenti, cambia completamente l’architettura dei circuiti che si possono formare e questo condiziona, probabilmente, il buon funzionamento del sistema nervoso.
Dentro di noi si formano continuamente sinapsi nuove mentre altre vengono rafforzate o soppresse, in base alle nostre esperienze o a dei fattori che ne condizionano il funzionamento come le malattie, i traumi o l’invecchiamento. Ma non solo, il formarsi o l’allentarsi delle connessioni dipende anche dalla nostra vita emotiva, dal tipo di frustrazioni e di gratificazioni che abbiamo avuto. La situazione è quindi fluida e decisamente complessa. Il fatto che ci siano così tanti collegamenti che variano da individuo a individuo ci rende unici e in qualche modo diversi anche da noi stessi al trascorrere del tempo.
– Vorrei tornare un attimo sulla fessura sinaptica, lo spazio vuoto che si interpone tra due neuroni prima del collegamento.Ti confesso che io ho una predilezione per il concetto di vuoto, inquadrato non come un’assenza ma come una possibilità recettiva. Mi spiego meglio e prendo il caso di quello che succede nel nostro sistema di numerazione, quando inseriamo lo zero per tenere aperta la possibilità di aggiungere. Se per esempio scriviamo il numero 102, con queste cifre indichiamo una quantità composta da un centinaio, nessuna decina e due unità. Inseriamo lo zero anche se le decine non ci sono, altrimenti il numero collassa e diventa 12. Serve un simbolo ad indicare il nulla per poter addizionare altre decine e ottenere numeri più grandi. Ti viene in mente, con un po’ di fantasia, un analogo concettuale che riguardi lo spazio vuoto tra neuroni?
– Come no! Lo spazio vuoto è senz’altro una possibilità di regolazione di una connessione. Se non ci fosse lo spazio vuoto tra i neuroni impareremmo con maggior difficoltà, avremmo meno possibilità di cambiamento.
C’è un fattore, però, che la matematica deduttiva non contempla e che si sviluppa invece con il calcolo delle probabilità. È un concetto che risulta inaspettatamente fondamentale per spiegare alcuni dei nostri micro-processi interiori: il caso.
– Il caso?
– Hai capito bene, il caso. Da qualche tempo, ormai, sappiamo che la componente genetica e le esperienze che abbiamo fatto nella vita non bastano da sole a spiegare in che modo diventiamo quello che siamo. In pratica, il nostro modo di essere dipende da tre fattori che ci condizionano in egual misura: quello genetico, quello del contesto in cui siamo vissuti e viviamo e quello casuale. Sai che i gemelli monozigoti, che hanno lo stesso patrimonio genetico, hanno impronte digitali diverse? Evidentemente esistono degli eventi che a un certo punto prendono strade imprevedibili e che danno, alla fine, gli esiti che vediamo.
In relazione al vuoto tra i neuroni, di cui mi hai chiesto, si ipotizza che succeda qualcosa del genere. Le nostre esperienze favoriscono alcune connessioni ma non tutte. Dato che queste si stabiliscono in precise finestre temporali, a un certo punto si devono formare e se non ci sono fattori determinanti lo fanno in modo casuale.
– Lo fanno comunque? Non potrebbero rimanere connessioni inespresse?
– Ma no, la vocazione del neurone è la connettività! Per lui è la vita, tutto converge a quello scopo.
Ho lasciato passare qualche secondo, rimuginando su quanto mi aveva appena detto. Poi ho ripreso con un’osservazione assai poco scientifica.
– Questo fatto del caso che ci condiziona tanto quanto la genetica e l’esperienza, non ti fa pensare che esista un Dio?
– Sai che la stessa domanda me l’ha fatta una volta un filosofo a una conferenza… ma non ho capito che cosa volesse dire.
– Mi spiego meglio. Immagina per un attimo di essere Dio, ammesso che si possa perdersi in immagini di questo tipo. Sapresti che l’uomo è un essere intelligente, che ha in sé delle cose meravigliose ma anche una certa smania di potere; che la ricerca spasmodica del successo gli fa perdere la lucidità e addirittura, qualche volta, smarrire il senso della vita. Saresti consapevole del fatto che nel tempo sarà in grado costruire strade per vivere meglio e sviluppare nuove forme di progresso, cercando di superare ogni limite. Ecco, dicevo, se tu fossi Dio, che cosa metteresti nella genetica dell’uomo per precludergli la possibilità di auto-progettarsi e di manipolare interamente il proprio patrimonio genetico? Insomma, rendere impossibile la creazione di una specie selezionata e lasciare alla Natura il suo compito di madre… Un dono che tuteli l’uomo da sé stesso, una risorsa che lo salvi, forse, dall’autodistruzione. Sarebbe certamente qualcosa che l’essere umano non può prevedere né controllare a suo piacimento. Pensaci, c’è qualcosa che si presti allo scopo meglio del caso?
– Interessante prospettiva, ma perché mai Dio dovrebbe voler impedire la manipolazione del genoma?
Questa domanda, posta con tanta semplicità, mi obbligava di fatto a guardare negli occhi le mie convinzioni etiche.
– Non saprei – ho risposto dopo un po’- forse potrebbe essere proprio questa la mela proibita del paradiso terrestre. Cosa c’è di più sacro della creazione? In ogni caso, per essere sicuri del motivo, bisognerebbe interpellare lui!
– Sei credente?
– Temo di no.
– Allora sarà difficile chiederglielo! Battute a parte, c’è anche un’altra considerazione da fare: senza caso non ci sarebbe libertà, tutto sarebbe predeterminato e inamovibile. L’imprevedibile, in qualche modo, amplia l’insieme delle possibilità e produce reazioni che a loro volta siconfigurano come nuovi scenari per eventi che altrimenti non sapremmo immaginare.
– Dunque serve l’imprevedibile per renderci liberi. È una riflessione destabilizzante. Siamo abituati a pensare alla libertà come a una conquista, quindi a qualcosa che dipende principalmente da noi. Pensiamo che essere liberi significhi scegliere, ma evidentemente per esserlo ancora di più abbiamo bisogno di qualcosa su cui non possiamo decidere proprio nulla! Ancora una volta ci accorgiamo di essere estremamente fragili: sottostiamo a un ordinamento che non riusciamo nemmeno a contemplare e infine prendiamo atto che questa è la nostra fortuna più grande. Sembra un paradosso…
– La vita stessa sembra un paradosso, la morte poi non ne parliamo!
– Prima di andarmene avrei un’ultima domanda, posso portela?
– Certo.
– Riguarda l’autocoscienza. Come fa il nostro sistema nervoso a renderci consapevoli della nostra vita interiore?
– È un tema molto interessante su cui ancora si dibatte, e molto. Qualche anno fa ho formulato una spiegazione, una specie di metafora utile a capire quello che succede. Stammi a sentire. Il nostro sistema nervoso ci consente di ricevere stimoli dal mondo esterno e anche dalla nostra parte interiore e lo fa trasmettendo al cervello moltissimi segnali contemporaneamente. In questo momento, per esempio, mentre ascolti le mie parole senti magari uno spiffero d’aria che viene dalla finestra e ti accorgi che mia moglie nell’altra stanza ha acceso la radio, nello stesso tempo pensi che il mal di testa con cui ti sei svegliata non è ancora scomparso del tutto nonostante l’analgesico che hai preso. Ecco, il tuo sistema nervoso raccoglie ed elabora tutte queste informazioni in modo parallelo: nello stesso momento lavora su moltissimi stimoli provenienti da fonti diverse. Quando ne prendi consapevolezza, questi stimoli si sono invece in qualche modo allineati e disposti in sequenza. Per esempio, se decidi di interrompermi per farmi ripetere quanto ti ho appena detto, la semplice costruzione della frase ‘mi rispieghi l’ultimo concetto’ impegna il tuo cervello in un’operazione di serializzazione che consiste nel mettere in fila le parole in modo sintatticamente e semanticamente corretto per farne una frase di senso compiuto. Questa operazione, che sembra assolutamente naturale, richiede in realtà un certo dispendio di energie psichiche. Ce ne accorgiamo se abbiamo bevuto alcolici o se abbiamo assunto dei farmaci particolari, quando le parole escono dalla nostra bocca in modo disordinato. Fino a questo punto, volendo trovare una metafora per inquadrare la situazione, si potrebbe paragonare il procedimento con cui diventiamo consapevoli all’immagine di un imbuto: tante informazioni parallele convergono verso una strettoia che le mette in ordine e le fa uscire in serie. Il lavoro del nostro cervello però non finisce qui. Una volta realizzato questo allineamento, che corrisponde alla presa di coscienza, il nostro corpo produce delle azioni. Per esempio dopo che mi hai fatto ripetere il concetto prendi la penna per scrivere un appunto, poi ti alzi e accosti la finestra perché lo spiffero d’aria ti fa aumentare il mal di testa. Per esplicitare questi gesti è necessaria l’attivazione sincronizzata di un certo numero di muscoli, coordinati ancora dal cervello. Ecco dunque che le informazioni tornano ad essere nuovamente in parallelo, anche se la fase del controllo e della progettazione è stata seriale.
La coscienza quindi, intesa come consapevolezza di quello che proviamo e facciamo, più che a un imbuto è paragonabile a una clessidra: un certo numero di eventi nervosi paralleli viene trasformato in un processo seriale per generare una presa di coscienza e progettare una risposta, dopo di che i comandi necessari per l’attivazione tornano ad essere paralleli. Il momento della consapevolezza corrisponde alla strozzatura della clessidra e costituisce uno stato di coscienza, un atomo di tempo interno in cui gli eventi si materializzano in un frammento di realtà pronto per essere percepito e integrato con gli altri. Il susseguirsi di più stati di coscienza dà luogo al così detto ‘presente dinamico’, una collezione di episodi di coscienza di durata variabile e fittamente collegati tra loro.
– Che cosa succede a livello fisico per generare uno stato di coscienza?
– Non lo sappiamo ancora e credo che passerà del tempo prima di poterlo stabilire con esattezza. Secondo alcuni neuroscienziati potrebbe trattarsi di episodi di sincronizzazione dell’attività nervosa dei neuroni presenti in aree diverse dell’encefalo. L’istante della consapevolezza corrisponderebbe al passaggio di un certo gruppo di neuroni da uno stato di fluttuazione caotico e asincrono a uno più ordinato e accordato in termini temporali. In questa ottica, maggiore è la quantità di cellule sincronizzate e più ampio e strutturato è lo stato di coscienza che ne deriva.
Non abbiamo ancora prove sufficienti a garanzia di questa ipotesi, certo è che mantenere uno stato di coscienza attivo richiede un grande dispendio di energie psichiche. Ce ne accorgiamo quando siamo impegnati in operazioni complesse che richiedono lunghi periodi di concentrazione, basti pensare a quanto è difficile per i bambini imparare e leggere o a scrivere, e quanta fatica costi in generale studiare. Tutto ciò che è astratto, in quanto meno esperienziale, è vissuto dal nostro cervello come estremamente impegnativo: rimanere a lungo sullo stesso pensiero ha un costo molto alto in termini di energia utilizzata. La matematica per esempio richiede una certa concentrazione e una discreta continuità, ecco perché è così temuta!
– Mentre Boncinelli parlava io cercavo di trattenere ogni concetto, mettendo a dura prova la mia capacità di memoria. Mi ero riproposta di scrivere ogni cosa, invece scarabocchiavo solo qualche frase qua e là, completamente rapita dal discorso e incapace di staccare gli occhi dalla scena. Appuntavo disordinatamente parole che navigavano sul foglio in attesa di un approdo. Avevo però dalla mia parte una pozione magica, di cui avevo letto proprietà mirabolanti. La mia vita emotiva in quel momento era lì, nel suo salotto ad ascoltarlo. C’erano i miei occhi, le mie orecchie, i miei battiti cardiaci, ma c’erano anche la mia attenzione e la mia volontà di esserci. Una fortissima motivazione a capire mi rendeva recettiva e determinata; l’idea che mi offrisse tutte quelle conoscenze in modo tanto fruibile suscitava in me un profondo senso di gratitudine. Ero debitrice verso di lui, verso i suoi libri e verso ogni mezzo della modernità che mi aveva consentito di organizzare quell’incontro. Ero debitrice verso il mio cervello, quell’ammasso di cellule a energia elettrica e chimica che riuscivano a darmi la gioia della comprensione.
– Chissà quanti neuroni si saranno sincronizzati da quando sono arrivata – ho detto prima di andare via.
– Tanti, ma solo temporaneamente – ha risposto lui sorridendo.
– Grazie di tutto, non mi scorderò di questa chiacchierata.
Ho salutato sua moglie e sono tornata verso la stazione. Ho preso il treno e ho scorso, a ritroso, le stesse case sui binari che avevo visto la mattina, durante il mio arrivo a Milano.
C’era una donna alla finestra e ci guardava passare.
Mi sono detta che forse stava vivendo la velocità dentro un quadro futurista.
O magari, chissà, lo pensava di noi.