26. Il libro della Sapienza

A mezzanotte in punto, Egle e Bianca bussarono alla porta della biblioteca.

Ester aprì e in un attimo si trovarono dentro. Attraversarono l’androne d’ingresso finché giunsero nella sala di lettura. L’ambiente era illuminato dalla luce di sicurezza, un chiarore soffuso che proveniva da una serie di lampade perfettamente distanziate, poste sotto le balaustre che ornavano le pareti.

– La biblioteca è grande – annunciò Ester – dove volete andare?

– Bella domanda.

Egle e Bianca si guardarono sconfortate.

L’assenza di informazioni in loro possesso rendeva plausibile ogni tentativo, qualsiasi pista poteva essere considerata valida per giungere al ritrovamento dei documenti menzionati nella lettera dei genitori di Egle, di cui al momento non sapevano nulla. Avevano passato il pomeriggio a cercare informazioni sulla biblioteca e a studiarne gli ambienti sul sito dei Beni Culturali, senza giungere a risultati convincenti. Alla fine avevano deciso di partire dal nome di Francesco Petrarca, rivelato dalla lettera come centro del mistero, ma non erano affatto convinte che fosse la strada giusta; il percorso che avevano affrontato fino a quel momento era troppo tortuoso per risolversi così, dietro al nome del Poeta. Erano ormai convinte che il cammino, fino alla fine, sarebbe stato tutto meno che diritto e che ogni scoperta sarebbe arrivata con la fatica della conquista. Avrebbero dovuto coinvolgere Ester, almeno in minima parte: il tempo a disposizione era poco e non potevano fare a meno della sua competenza sugli spazi della biblioteca. L’obiettivo che si erano prefissate era carpire da lei il maggior numero di informazioni possibile, senza violare la segretezza della loro missione.

Egle prese la parola.

– Abbiamo letto che c’è una statua dedicata a Petrarca, qui al piano terra.

– È vero. Si trova là, in fondo alla sala.  

Bianca ed Egle si avvicinarono alla scultura monumentale e la guardarono da ogni lato. Non c’erano pertugi né aperture che potessero far pensare a un nascondiglio, inoltre quel luogo era decisamente troppo trafficato per poter essere preso in considerazione come posto segreto. L’insuccesso di quel tentativo le convinse che era necessario cambiare strategia, dirigersi in posti meno prevedibili e probabilmente più ragionati. Decisero di ricominciare da capo, senza sapere quale fosse l’inizio. Prima di allontanarsi dal busto, Egle lo scrutò con aria sbigottita, mostrando un’espressione quasi confidenziale. 

– Guarda te chi dovevo avere per parente – disse piano.

Bianca si mise a ridere.

– Poteva andarti peggio.

Tornarono vicino ad Ester, rimasta nella zona centrale. Chissà, forse lei avrebbe potuto fornire qualche informazione, consentendo loro di svoltare nella ricerca.

Egle la guardò con aria interrogativa.

– Se lei volesse nascondere qualcosa qui dentro, dove la metterebbe?

La donna si fermò a pensare.

– Beh… – disse dopo un po’- questo è un luogo antico e come tutti i posti che hanno una grande storia, è pieno di pertugi.

– Allora?

– Un attimo, fatemi pensare.

Dopo qualche secondo, dette il suo responso.

– In uno dei forzieri della Zecca, probabilmente sceglierei quello come nascondiglio. Sono scrigni antichi in cui veniva custodito il tesoro dello Stato. Al momento sono esposti solo come testimonianza della storica attività e sono perennemente chiusi. Mi sembrerebbe un posto sicuro.

– Dove si trovano?

– Al primo piano, venite.

Si avviarono verso le scale e cominciarono a salire.

– Com’è suggestivo – commentò Bianca guardando il soffitto sopra i gradini.

Ester fu felice di spiegare, ancora una volta, il significato di quell’ascesa. Dentro di sé sorrise per la circostanza in cui si trovava a farlo: mai avrebbe pensato di portare qualcuno a giro a quell’ora, l’ultimo giorno del suo mandato lavorativo.

– Le rappresentazioni degli stucchi simboleggiano un percorso interiore – disse con estrema professionalità – il viaggio di ogni individuo che sia animato dalla virtù. All’inizio l’uomo è condizionato dai pianeti e dagli elementi, man mano che sale perde l’attaccamento terreno e si avvicina alla conoscenza.

– Speriamo che sia di buon auspicio anche per noi – commentò Bianca.

Arrivarono nell’atrio al primo piano e si immisero in un corridoio che girava lungo le pareti della Sala Prestiti, in cui si trovavano poco prima.

Procedettero per una decina di metri e giunsero in un andito più ampio, abbellito dalla presenza di un bassorilievo e da due casseforti di legno, rivestite con borchie di ferro.

– Ecco qua – disse Ester indicando i forzieri.

– Possiamo aprirli?

– Direi proprio di sì, siamo venute apposta. Dovrebbero essere in buono stato di conservazione, ma state attente quando tirate su il coperchio: è molto pesante. Prendetelo da due lati e sollevatelo insieme.

Bianca estrasse lo smarphone dalla tasca e accese la torcia. Poi la passò ad Ester e si mise dall’altra parte della cassapanca, piegata sulle gambe per dare una spinta verticale. Egle, dal lato opposto, assunse la stessa posizione.

– Pronta?

– Vai.

Le due ragazze alzarono la copertura e guardarono all’interno, mentre Ester illuminava dall’alto. 

– Qui non c’è nulla.

– Zero totale.

– Guardiamo nell’altro.

Richiusero con garbo il coperchio e ripeterono l’operazione sul secondo forziere, anche questa volta senza successo.

– Adesso che si fa? – chiese Bianca sconsolata.

– Non lo so – rispose Egle – bisognerebbe entrare nella testa di mia madre per comprendere dove abbia deciso di nascondere i documenti.

– Certamente li ha lasciati dove pensava che li avreste trovati – si intromise Ester. Possibile che non abbia dato indicazioni al riguardo?

– Purtroppo no. O almeno…forse le ha date a modo suo, stravagante com’era. Io ero molto piccola quando è venuta a mancare, faccio fatica a ricordarne il carattere. Ho la sensazione di somigliarle, ma non saprei dire che cosa potrebbe aver fatto o pensato per suggerirci la strada da seguire.

– Hai ragione – confermò Ester – tua madre era una donna decisamente singolare. Se avesse voluto lasciare qualche riferimento, non l’avrebbe fatto nei modi tradizionali.

In quel momento Egle ebbe un flash, un’immagine precisa squarciò la sua testa e si infilò tra le connessioni della sua memoria recente.

– Un attimo – disse di colpo.

Ester e Bianca si fermarono a guardarla.

– L’articolo di giornale, ricordi? – chiese all’amica – diceva che al momento dell’incidente aveva in tasca una foto.

– È vero! Parlava di una strana coincidenza, se non sbaglio era l’immagine del soffitto a volta delle scale, in prossimità di quello crollato. Dici che potrebbe averla tenuta apposta?

– Non lo so…certo non sapeva di morire per il crollo. Ma è strano che l’avesse in tasca, un motivo ci sarà stato. Che cos’è che rappresentava?

– Una donna con un libro e un cerchio, mi pare.

– La sapienza – si intromise Ester.

Rimasero in silenzio qualche secondo e lei ripeté:

– La sapienza.

Il nome altisonante di quell’indicazione le scosse dall’interno. Furono raggiunte, nello stesso identico momento, dal pungolo di una sensazione inafferrabile, l’aculeo di un presentimento che si conficcava sotto pelle senza trovare un riferimento preciso.  

– Possiamo andare a vederla? – Egle uscì dall’impasse.

– Venite.

Ripresero le scale e salirono la seconda rampa. Arrivate in cima, alzarono gli occhi e individuarono la formella di stucco.

– Una donna tra il cerchio e il quadrato – disse bianca osservando il bassorilievo – che cosa avrà voluto dire?

– Siamo alla fine della scala, il percorso di ascesa è completo. Il libro quadrato rappresenta l’umano, il cerchio invece richiama l’assoluto. La conoscenza avvicina l’uomo al divino.

Ester fece una pausa e rimase interdetta. Poi, come aveva fatto mille volte in quel punto della biblioteca, riprese a parlare. Ebbe la sensazione che quel collegamento, tante volte spiegato, prendesse adesso i toni di un’altra sfumatura e la portasse dove non era mai stata.

– C’è un altro dipinto che rappresenta la Sapienza. È proprio qui, dopo la scalinata – disse con voce incerta.

Fecero qualche passo ed entrarono nel vestibolo, una sala destinata un tempo alle riunioni accademiche e divenuta, poi, sede dello Statuario della Repubblica. Sul pavimento, una decorazione ad archi guidava lo sguardo verso un grande cerchio, al centro della stanza.

Ester alzò gli occhi e indicò il soffitto.

Bianca ed Egle seguirono l’indicazione e volsero il naso all’insù.

In un ottagono ligneo, una donna tra le nuvole reggeva un papiro di scritture e poggiava l’altra mano su un libro, sorretto da un putto alato.

– È un’opera di Tiziano – comunicò Ester.

– Ancora una volta una donna e un libro.

– Già, un libro.

Ester sbiancò all’improvviso.

– Il Libro della Sapienza – mormorò, stupita dal suono della sua stessa voce.

– Che cos’è? – chiesero le ragazze.

– Come che cos’è…è un libro della Bibbia!

– La Bibbia?

– Esatto. In questa biblioteca ci sono delle Bibbie molto antiche, in edizioni monumentali. Alcune sono del 1500, pezzi rarissimi e non consultabili dal pubblico.

– Possibile che mia madre abbia nascosto i documenti dentro una Bibbia?

– Il richiamo al Sacro è già venuto fuori col cerchio, mi pare.

– Dove sono questi volumi?

– Alcuni sono nel Salone qui accanto, altri nella Sala Bessarione.

Uscirono dal Vestibolo ed entrarono nella Libreria Sansoviniana, un ambiente sontuoso col soffitto a volta, circondato da dipinti e da ampie finestre affacciate sul centro della città. Sui bordi della stanza, una serie di teche ospitava dei volumi aperti e dei documenti d’altri tempi.

– È bella da togliere il fiato – commentò Bianca.

Si avvicinarono agli armadietti e con la torcia e illuminarono i vetri per vedere cosa vi fosse contenuto.

La prima, la seconda, la terza vetrina…a un tratto Egle ebbe un sussulto.

– Oh mio Dio Bianca…questa è la bacheca della foto! Ricordi? A casa dei miei. Ci sono i numeri che non riuscivamo a interpretare, quelli spiegati da Scarpelli a Trieste.

Bianca sentì un brivido attraversarla per intero.

– Hai ragione, è proprio lei. Significa che siamo sulla strada giusta.

Proseguirono e visionarono ogni espositore.

In un armadietto più avanti, trovarono una Bibbia utraquista in lingua ceca del 1506, insieme un’altra Sacra Scrittura conciata e rilegata con la fibbia. Guardarono tutto con gli occhi spalancati come se scoprissero, in quell’istante per la prima volta, di avere una storia comune.

Dopo un primo momento di entusiasmo, Bianca tornò alla concretezza della loro ricerca e fece il punto della situazione.

– Sarà difficile che i documenti per noi siano qui dentro, è tutto troppo in evidenza.

– Penso anch’io – aggiunse Ester – andiamo nella Sala Bessarione.

Percorsero il tragitto al contrario e scesero una rampa, fino a tornare nel corridoio perimetrale sopra la Sala Prestiti.

Superarono qualche ufficio ed entrarono nella stanza dedicata a Bessarione, il cardinale che aveva fondato la biblioteca nel 1468 per ospitare gli antichi volumi greci che aveva raccolto dopo la caduta di Costantinopoli.

La sala era circondata da un passamano di legno, un corridoio sopraelevato interdetto al pubblico, su cui erano disposti armadi con ante a reticolato che consentivano di vederne il contenuto senza poterlo toccare.

Salirono le scalette e giunsero presso un mobile in angolo, posto sotto lo stemma del Cardinale.

– Qui ci sono le bibbie rabbiniche uscite a stampa nel 1524 – comunicò Ester.

– L’armadio è chiuso a chiave – osservò Bianca.

– Un attimo solo, aspettatemi qui.

Ester scese le scalette e giunse presso una grande scrivania posta al centro della sala. Aprì il cassetto ed estrasse una scatola di guanti in lattice. Poi andò sul fondo della stanza e digitò un codice sulla mostrina del Sistema di Sicurezza, per disattivare l’allarme. Infine risalì la scala e tirò fuori dalla tasca un mazzo di chiavi.

– Infilate questi – disse porgendo i guanti – i volumi antichi si sciupano con l’umidità della pelle.

Si chiese, in quel preciso momento, se stesse facendo la cosa giusta.

In tanti anni di servizio, aveva accumulato informazioni su ogni angolo della biblioteca, anfratti segreti di quel posto prezioso e unico al mondo. Le stava mettendo adesso a disposizione di due ragazze pressoché sconosciute di cui, sorprendentemente, non sapeva nulla.

Eppure, qualcosa dentro di lei urlava di procedere.

Guardò verso la finestra, nel buio della notte.

Forse fu la tensione del momento, forse la stanchezza o forse solo un’allucinazione.

Al di là dell’apertura, sospesa nel vuoto, vide l’immagine di Lidia. Teneva la mano sul vetro, come a cercare un contatto, e la guardava con insistenza.

Ester riconobbe, senza sapere di ricordarlo, il vestito che Lidia indossava il giorno dell’incidente. Giovane, come era giovane quando morì, col sorriso fiero di chi sapeva cosa fare; presenza diversa che non faceva paura e anzi, con gli occhi invitava a sperare.

Ester ricambiò lo sguardo e acconsentì con un movimento della testa, poi fece un sorriso. Quel suo ultimo giorno di lavoro si era trasformato in un’esperienza risolutiva, un’avventura che dava profondità alle sue scelte, al passato, al senso stesso della vita.

Guardò di nuovo la finestra, Lidia non c’era più e il cielo era tornato scuro.

Girò la chiave nella serratura dell’armadietto e lo aprì con attenzione.

– Vi aspetto fuori dalla porta – disse risoluta – abbiate cura di quello che fate.

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